di Giulio Mozzi
[Diversi anni fa Gianni Bonina mi chiese di compilare per la rivista Stilos una rubrica che fosse qualcosa come “un corso di scrittura creativa a puntate”. Scrissi 100 puntate. Se le volete tutte in un colpo, le trovate qui. Rielaborate e aggiustate, le 100 puntate sono diventate anche un libro, pubblicato da Terre di mezzo: (non) un corso di scrittura e narrazione. Da oggi le ripubblicherò qui, una al giorno (salvo inconvenienti e incidenti); e cercherò di rispondere a eventuali domande, obiezioni, dubbi eccetera. Occasionalmente inserirò negli articoli, come approfondimento, qualcuna delle mie videolezioni].
Buongiorno a tutte e tutti. Dicevo la settimana scorsa [cioè ieri, per chi legge qui]: non pensiamo che la prima soluzione narrativa che troviamo sia necessariamente, magari proprio in virtù della sua “spontaneità” o “naturalezza”, la soluzione più opportuna. Una storia, questo è evidente, può essere raccontata in diversi modi. Di solito, quando cominciamo a immaginare una storia, siamo molto preoccupati della sua materia: che cosa succede, a chi, dove, perché, eccetera. Ma a un certo punto – possibilmente prima di metterci a scrivere – dovremo cominciare a immaginare anche la forma della storia, il modo in cui organizzeremo l’intreccio, lo stile che adopereremo, il tipo di testo che produrremo. Certo: la storia ci è venuta in mente, abbiamo cominciato a immaginarla con una certa forma: avremo la sensazione fortissima che quella forma sia indissolubilmente legata alla storia. Ma spesso non è così.
Possiamo immaginare anche diverse possibilità ideologiche. I promessi sposi è un romanzo tutto scritto – paternalisticamente – dalla parte della «povera gente»; ma potremmo provare a cambiargli ideologia, e a riscriverlo tutto dalla parte dei potenti. Lucia allora non è più un esempio di virtù, ma una cretina che non si rende conto del vantaggio che potrebbe trarre dalla «protezione» di don Rodrigo; padre Cristoforo non è più un eroe ma un vigliacco che è sfuggito alla giustizia indossando il saio; Renzo è un sedizioso; l’Innominato è un uomo che era stato un grande, ma improvvisamente è impazzito; il cardinale è il diavolo; e don Abbondio è il suddito ideale, sempre pronto a servire. Oppure potremmo adottare un’ideologia nichilista: e quindi tutto ciò che nel romanzo accade, secondo Manzoni, grazie al silenzioso e misterioso intervento della divina provvidenza, accadrà invece – come, tra l’altro, in tanti romanzi dell’epoca – per puro purissimo caso.
Una vecchia vignetta di Altan mostrava uno dei suoi soliti omaccioni in poltrona che diceva: «A volte ho dei pensieri che non condivido». [Se qualcuno è capace di trovarla, grazie] Ora, non è detto che noi dobbiamo condividere i pensieri della storia che raccontiamo. Così come posso immaginare un personaggio potente o nichilista, posso anche immaginarmi di essere io stesso un narratore nichilista o servo dei padroni. L’ideologia di fondo di una narrazione è essa stessa un’invenzione, una nostra libera scelta di narratori.
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Ma, se decidiamo ad esempio che la misura giusta è quella del racconto, abbiamo ancora un sacco di possibilità tra le quali scegliere. Innanzitutto possiamo – e dobbiamo – scegliere il “genere” del nostro racconto: giallo, noir, fiaba, rosa, horror, novella, apologo, eccetera. Poi possiamo – e dobbiamo – scegliere se il nostro racconto avrà dialoghi o non ne avrà o sarà costituito interamente da dialoghi; se sarà lento o veloce o a ritmo variabile; se sarà dettagliato o sommario, realistico o evocativo, semplice o intricato (una storia intricata può essere raccontata con semplicità, una storia semplice può essere raccontata intricatamente), in prima seconda terza persona, e così via.
E come se non bastasse, dobbiamo – possiamo – anche decidere proprio il tipo di testo. Un delitto, ad esempio, può essere raccontato con un normale racconto. Ma può essere raccontato anche con estratti dagli atti del processo, o con una confessione, o con la sentenza (una sentenza è anche una meticolosa ricostruzione di fatti), o attraverso gli articoli dei giornali… Un amore può essere raccontato con un normale racconto, ma anche con le lettere (o le e-mail, o gli sms) che gli amanti si scambiano… Una follia può essere raccontata con un normale racconto, ma anche con una cartella clinica, o con testi scritti dal folle stesso… Si può dire addirittura che è una caratteristica propria del romanzo moderno, quella di essere costituito di materiali diversi provenienti da tutti i generi di scrittura possibili e praticabili: il romanzo imita il mondo anche nel senso che imita tutte le scritture del mondo. Ma dell’imitazione, discorso importante e difficile, cominciamo a parlare la settimana prossima [cioè domani, per chi legge qui]. A risentirci.
Trovo molto interessanti i casi di rielaborazione della materia in forme diverse a opera dell’autore stesso. Penso ad esempio al rapporto che c’è tra il monologo teatrale Solo RH (pubblicato in Due Monologhi, Einaudi, 2009) e il racconto Niente specchi in questa casa (contenuto nella raccolta Grotteschi e arabeschi, Einaudi, 2009): la materia di partenza è chiaramente la stessa, pur se cambiano due personaggi e dunque il tipo di relazione (omosessuale nel primo caso, eterosessuale nel secondo). Non so quale sia venuto prima (d’istinto direi il monologo) e mi piacerebbe capire cosa ha spinto l’autore a riprendere in mano una storia già scritta: la prima forma non lo ha soddisfatto? C’era ancora qualcosa da dire? Altre prospettive da esplorare? (poi nel mio realismo, o cinismo, mi viene anche da pensare che, giacché i testi teatrali non sono propriamente dei bestseller, rielaborare la storia in racconto potesse avere pure un senso commerciale).
Diciamo almeno che l’autore in questione è Vitaliano Trevisan.
Ecco: stavolta ho avuto cura di citare per bene casa editrice e anno di pubblicazione e ho dimenticato l’autore 😀
La vignetta che dici è qui (purtroppo l’ho trovata solo piccola): https://upload.quag.com/upfiles/images/1428966000/orig/233e4152-e2d8-11e4-b0c8-485b3977183d.jpg
ciao!
a.