di Giulio Mozzi
[Diversi anni fa Gianni Bonina mi chiese di compilare per la rivista Stilos una rubrica che fosse qualcosa come “un corso di scrittura creativa a puntate”. Scrissi 100 puntate. Se le volete tutte in un colpo, le trovate qui. Rielaborate e aggiustate, le 100 puntate sono diventate anche un libro, pubblicato da Terre di mezzo: (non) un corso di scrittura e narrazione. Da oggi le ripubblicherò qui, una al giorno (salvo inconvenienti e incidenti); e cercherò di rispondere a eventuali domande, obiezioni, dubbi eccetera. Occasionalmente inserirò negli articoli, come approfondimento, qualcuna delle mie videolezioni].
Buongiorno. La settimana scorsa avevo promesso qualche esempio di imitazione – di imitazione ben riuscita, s’intende – tratto da Oceano mare di Alessandro Baricco. Ma l’altro giorno, in un laboratorio di scrittura a Bergamo, ho parlato appunto di imitazione – che è, avrete capito, un mio cavallo di battaglia .: e c’è stato un coro di proteste. «Ma se io imito», mi è stato detto, «dove va a finire la mia originalità?». L’originalità non c’entra, io penso. Ma per spiegarmi devo prenderla alla larga.
Noi tutti scriviamo in una lingua: la lingua italiana (si può anche scrivere in dialetto, o in lingue miste; ne riparliamo alla fine). Questa lingua, la lingua italiana, non ce la siamo mica inventata noi: l’abbiamo ricevuta, imparata. I genitori, gli adulti, i coetanei, i libri, i giornali, la televisione, la radio: tutti ci hanno insegnata la lingua italiana. È ovvio però che la lingua italiana la parliamo ciascuno di noi a modo suo. Ogni scrittore ha una sua lingua più o meno riconoscibile; ciascuno di noi, anche nel parlato più intimo, familiare e incontrollato, ha suoi propri modi di dire, giri sintattici, parole, articolazioni del discorso.
Esiste poi un mito romantico: quello dello scrittore – del poeta, in particolare – che “reinventa” la lingua in cui scrive. Lo scrittore secondo l’immaginazione romantica non parla la lingua, per così dire, dei comuni mortali; parla una lingua che gli viene dritta dal cuore, o dalla pancia, o dalla musa, o da dio, o dall’ispirazione, o da chissaddove. Bene: questa immaginazione romantica era certamente opportuna a suo tempo: la lingua letteraria di allora, tra fine Sette e inizio Ottocento, era una lingua molto stilizzata, molto regolata, molto scelta, e quindi anche molto limitata, molto ideologica (inconsapevolmente ideologica, ma ideologica), molto – diciamolo – letteraria. Lo scrittore romantico sentiva giustamente il bisogno di trovare, ossia inventare, un’altra lingua letteraria: che fosse, appunto, meno letteraria, o addirittura per niente letteraria.
Ma i tempi cambiano. Alessandro Manzoni fu uno scrittore romantico – vabbè, il romanticismo in Italia è stato una cosa all’acqua di rose, in confronto agli sfracelli dei tedeschi: ma Alessandro Manzoni è stato romantico nei limiti del possibile in Italia: era già scandaloso, ricordiamocelo, che avesse eletto a protagonisti del suo romanzo due «vili meccanici», due poveracci, anziché principi e re – e costruì una lingua romantica così ben fatta, così efficiente, così ben funzionante, che dopo lui tutti, o quasi tutti, divennero manzoniani. La rivoluzione si era compiuta. Dopo il tempo dell’innovazione era venuto il tempo dello sfruttamento dell’innovazione acquisita: fino alla rivoluzione successiva… (ho un tantino semplificato; portate pazienza).
Naturalmente quando scriviamo, soprattutto se vogliamo scrivere un’opera letteraria, stiamo bene attenti alle parole che scegliamo. Ma quando usiamo, per dire, la parola «casa», non è che ci sentiamo poco originali: la parola «casa» è stata usata da tutti gli scrittori d’Italia, per secoli, e noi li imitiamo usandola ancora; ma non sentiamo questo come una perdita di originalità. Possiamo, certo, scegliere di non usare proprio la parola «casa» bensì un’altra parola o espressione più adatta ai nostri scopi: «magione», «dimora», «edificio», «abitazione», «appartamento», «nido familiare», «cuccia», «ostello», «baracca», «home sweet home», «prigione», «gabbia» ecc.: ma così facendo continuiamo ad attingere al grande magazzino del lessico italiano – o accettato in Italia -: ciascuna di queste parole o espressioni è stata adoperata da altri scrittori e/o parlanti prima di noi.
Allo stesso modo – così chiudo il ragionamento – possiamo pensare che quando imitiamo forme del testo, schemi narrativi, articolazioni della storia ecc., non facciamo altro che usare il magazzino delle narrazioni come se fosse un magazzino delle parole; e nel riusare, adattata alle nostre esigenze, una forma di testo già usata, non facciamo niente di diverso da quando diciamo, come tanti altri hanno detto, «casa» o «appartamento».
Un paradosso: se volessimo parlare una lingua veramente nostra, una lingua che venga veramente dal cuore o dalla pancia o dalla musa o da dio, probabilmente parleremmo una lingua comprensibile solo a noi stessi. Così, se volessimo usare forme di testo, schemi narrativi o articolazioni della storia che vengano direttamente dal cuore ecc., probabilmente comporremmo una narrazione comprensibile solo a noi stessi.
Si tratta, in somma, di pensare alla narrazione come a un luogo di compromesso: tra la voce divina che «ditta dentro» e l’elementare desiderio, o esigenza, che ciò che scriviamo sia comprensibile ad altri. Naturalmente possiamo prenderci delle libertà: possiamo miscugliare la lingua italiana con i dialetti o con altre lingue, possiamo articolare la storia in maniere strane e bizzarre, possiamo attingere a tradizioni linguistiche e narrative diverse dalla nostra.
* * *
Queste cose ho dette nel laboratorio di Bergamo, domenica scorsa; e sembrava quasi che si fossero tutti convinti, finché non me ne sono uscito con questa parolaccia: «compromesso». Apriti cielo! Ma del compromesso, per l’appunto, parleremo la settimana prossima; e quanto agli esempi da Oceano mare, aspetteranno. State bene.