di Giulio Mozzi
[Diversi anni fa Gianni Bonina mi chiese di compilare per la rivista Stilos una rubrica che fosse qualcosa come “un corso di scrittura creativa a puntate”. Scrissi 100 puntate. Se le volete tutte in un colpo, le trovate qui. Rielaborate e aggiustate, le 100 puntate sono diventate anche un libro, pubblicato da Terre di mezzo: (non) un corso di scrittura e narrazione. Da oggi le ripubblicherò qui, una al giorno (salvo inconvenienti e incidenti); e cercherò di rispondere a eventuali domande, obiezioni, dubbi eccetera. Occasionalmente inserirò negli articoli, come approfondimento, qualcuna delle mie videolezioni].
[Ho fatto un po’ di confusione. Questa lezione sarebbe in realtà la 31, e si riallaccia alla 30.gm]
Martedì scorso finivo citando una breve notizia di cronaca (dal Gazzettino, pagine provinciali di Padova). La ripeto:
Ieri pomeriggio a Monteortone due giovani a bordo di una motocicletta hanno rotto il vetro di un’auto parcheggiata in via Castello da una coppia di turisti tedeschi e si sono impossessati della busta di plastica lasciata sul sedile, contenente un pacco di fazzoletti di carta e alcune creme antisole. Gli agenti della polizia municipale hanno accompagnato la coppia a sporgere denuncia ai carabinieri.
Poi: chissà che cosa ci facevano, due turisti tedeschi, a Monteortone. Monteortone è, va l’assicuro, tra tutti i paesi della provincia di Padova, uno dei meno rilevanti turisticamente. Non c’è nessuna ragione precisa perché dei turisti debbano andare a Monteortone. E allora, che cosa ci facevano lì? E che cosa volevano veramente rubare i due motociclisti? E si è trattato veramente di un furto oppure di un modo, per chissà quali ragioni così stabilito, di far passare di mano un oggetto? In fondo, che dentro la busta ci fossero solo fazzoletti di carta e cosmetici, l’hanno detto i due turisti, non è mica un fatto accertato…
Molti romanzi o racconti cominciano così: con un fatto banale, anche futile, che tuttavia apre una promessa di narrazione: ossia, pur nella sua banalità, contiene qualcosa di inspiegabile, o almeno di illogico. L’abilità del narratore consiste, in questi casi, nel proporci un mondo nel quale le cose che avvengono sono banali (e perciò, va da sé, senza esitazione credibili) e tuttavia lievemente “sfasate” rispetto alla vera e autentica banalità (quella, per intenderci, che sperimentiamo nella nostra vita quotidiana).
La narrazione in somma ci propone avvenimenti perfettamente credibili, che però non sono davvero del tutto perfettamente credibili. Sono credibili, ma ci lasciano il sospetto che “ci sia sotto qualcosa”. Sono credibili, ma hanno un particolare che, a pensarci bene, è troppo strano per essere creduto così sui due piedi. Sono credibili, ma forse basterebbe osservarli da un altro punto di vista…
* * *
Eravamo forse una decina o qualcuno in più. Eravamo ai giardini pubblici. Era novembre. Era vino. Ce n’era tanto. Per tenersi caldi, per stare vicini. Qualcuno esagerò. Più di qualcuno, a dire il vero. Poi uno corse ad abbracciare un albero enorme e iniziò a sgranare parole senza senso circa la fecondazione e gli elefanti in Indonesia.
Questo è l’incipit di Come gli elefanti in Indonesia, romanzo assai bizzarro e non del tutto privo di qualità di Vanni Schiavoni, classe 1977, di Manduria (edizioni LiberArs). Anche qui abbiamo una situazione banale, nella quale irrompe un fatto inspiegabile. Che c’entrano gli elefanti, la fecondazione, l’Indonesia, con un normale pomeriggio di ragazzi che chiacchierano e bevono?
Nel romanzo di Vanni Schiavoni, questo “ricucimento” della realtà tarda ad arrivare. Così che il lettore legge e legge le prime pagine, e non capisce bene quale sia la promessa narrativa. Che c’entrano gli elefanti? A un certo punto la risposta arriva, e la narrazione si fa leggere assai volentieri; tuttavia c’è stato uno iato, un momento di indecisione iniziale, un piccolo vuoto: proprio all’inizio, proprio lì dove, invece, il lettore dovrebbe (permettetemi questo verbo) essere incuriosito e irretito.
Perché lo scopo di ogni narrazione, si sa, è questo: essere letta, o ascoltata, o guardata, dall’inizio alla fine.
* * *
Quando il fatto che irrompe è veramente inspiegabile, o almeno straordinario, è necessario provvedere rapidamente a un “ricucimento” della realtà. Se il fatto che irrompe è sostanzialmente spiegabile, è necessario provvedere a instillare nel lettore il dubbio che così spiegabile in effetti non sia. Che cominciamo a raccontare in un modo o che cominciamo a raccontare in un altro, si arriva comunque a uno stesso punto medio: la presentazione di una realtà che è parzialmente spiegabile (e che quindi il lettore si spiega da sé) e parzialmente inspiegabile (e che quindi il lettore si aspetta che noi gli spieghiamo).
Una realtà tutta inspiegabile, sarebbe rifiutata dal lettore come una sciocchezza. Una realtà tutta spiegabile, non presenta il minimo interesse.
L’incipit di una narrazione, quindi, serve anche a questo: a promettere al lettore che, questa realtà dove qualcosa è inspiegabile, prima o poi gli sarà spiegata per filo e per segno. Promessa che, sia chiaro, non è poi così obbligatorio mantenere.


Letto.
(Refusino: fazzoletti di parta)
Grazie, Mat: ho corretto.