di giuliomozzi
1. Non ha senso sostenere che lo scopo delle case editrici, in quanto imprese, è il profitto. Ha senso invece dire che una casa editrice, se va in perdita, inevitabilmente chiude (o se la compera qualcun altro); se ne genera punto o poco, è una zavorra per chi la possiede. Queste due affermazioni sono vere indipendentemente dalla definizione di “scopo delle case editrici”.
2. Il maggior costo, nella produzione di un libro, è nella maggior parte dei casi costituito da magazzino e movimentazione (spazi di stoccaggio, spedizioni, ritiri, gestione delle rese eccetera).
3. Un editore che pubblica un libro senza avere un progetto minimamente fondato su come fare a venderlo, è un babbeo.
4. Non è vero che “si pubblica robaccia che vende tanto per poter pubblicare anche roba bella che vende poco”: la robaccia, quando arriva, si prende tutti gli spazi (è la versione editoriale della legge di Gresham, bellezza).
5. I librai devono campare. Ripeto: i librai devono campare.
6. Vendere libri non è come vendere salami, perché ogni anno si pubblicano migliaia e migliaia di libri nuovi e diversi – mentre i salami, benché la varietà non sia scarsa, tutto sommato sono – in confronto – sempre quelli. Non si producono di anno in anno venti, trenta, quarantamila salami diversi, ciascuno bisognoso di una descrizione e di una promozione specifica. I libri sono un prodotto merceologicamente complessissimo.
7. Per la stessa ragione è difficilissimo fare pubblicità a un singolo libro. Se l’editore Bottazzi & Valota pubblica, diciamo, circa centoventi libri l’anno, si arrischierà a fare pubblicità per un singolo titolo solo se ritiene che quel singolo titolo possa fruttare quanto basti per pagare la pubblicità. Una pagina a colori su “Repubblica”, tanto per farsi un’idea, nell’edizione di Roma può costare cinquantamila euro. Fate conto che per un editore, una volta tolto ciò che resta al dettagliante (30-40%), al promotore-distributore (20%), all’autore (8-15%), resta un 25-42% del prezzo di copertina, nel quale devono rientrare tutte le spese generali (dagli affitti agli stipendi, dalla carta igienica nel bagno alla pulizia degli uffici, dal magazzinaggio ai grafici, ec.), ovvero in un libro nuovo che costi al pubblico 20 euro ne restano all’editore tra i 5 e gli 8,40 (ma una novità ha di solito maggiori sconti per i dettaglianti) – quante copie bisogna sperar di vendere per spendere a cuor leggero cinquantamila euro di pubblicità? (E: se fai una pubblicità micragnosa, spendendo poco, non saranno semplicemente soldi buttati – perché nessuno vedrà le tue microinserzioni?).
8. I libri che mantengono davvero gli editori, non sono quelli che gli autori pensano. Sono quelli che vendono a lungo, non quelli che vendono tanto in un certo momento (e poi chissà). Sono i manuali di cucina. Sono gli albi e i libri-oggetto dei Pigiamask (o della Peppa, o di Masha e Orso, ec.), se si riesce a star dietro puntualmente alla stagionalità dei cartoni. Sono le guide turistiche. Oggi – ho appena controllato – è fuori catalogo, ma: quanto ha venduto, dal 1926 ai nostri tempi, il Venezia e il suo estuario di Giulio Lorenzetti, edizioni Lint, nelle sue diverse edizioni e traduzioni?
9. Si può investire su un autore che vende poco. Ci vogliono buone ragioni. Una può essere il prestigio: ma ci sono diversi ambienti nei quali l’editore può decidere di voler acquistare prestigio (l’ambiente della critica letteraria, l’ambiente dei cattolici reazionari, l’ambiente dei radical-chic – se esistono ancora -, l’ambiente dei vegetariani, l’ambiente dei lettori delle riviste illustrate da un euro, eccetera: e ogni ambiente è fatto in un modo diverso, e reagisce in un modo diverso). Un’altra può essere lo scambio, formalizzato o tacito, di favori e/o di attenzioni (e non pensate solo allo scambio pubblicazioni/recensioni: si può anche pubblicare il libro del presidente della banca con la quale si ha un consistente debito, o dell’esponente di un partito dal quale ci si aspettano certe cose ec.). Un’altra può essere la relazione con un certo agente (che mi fa pubblicare Tizio se pubblico anche Caio) o, meno spesso, con un certo editore non italiano (che mi fa tradurre Tizio se traduco anche Caio). E così via. Tra queste ragioni può esserci anche, addirittura, la convinzione che quell’autore sia un grande scrittore.
10. L’editore, l’ho ripetuto mille volte e lo ripeto ancora, è il primo nemico dell’autore. Non perché l’editore sia cattivo e l’autore buono (o viceversa): ma perché l’autore e l’editore, almeno di questi tempi, spesso non condividono i propri obiettivi. Ci possono essere relazioni autore-editore molto felici (la mia relazione con Laurana, per esempio, è molto felice: almeno da parte mia). Ma una possibile felicità si fonda sul parlarsi chiaro, sull’essere espliciti, sull’evitare ogni forma di pensiero secondo o di compiacenza. Il che, va detto, da una parte e dall’altra, non avviene – per quel che mi è stato dato di vedere dacché pubblico (dal 1993, ma il primo contatto con l’editoria è avvenuto nel 1992) e dacché lavoro nell’editoria (dal 1998 saltuariamente, dal 2001 regolarmente) con molta frequenza.
[E se avete avuta la pazienza di leggere fin qui, magari potreste farmi anche la gentilezza di dare un’occhiata al bando del Corso fondamentale di narrazione, che si terrà nei primi mesi del 2018 a Milano e a Cagliari. Grazie].
L’ha ribloggato su Racconti di Marina.