Scrivere con gli occhi: un esercizio e un suggerimento pratico

di Giulio Mozzi

I testi nelle nuvole li ho cancellati io (tranquilli, poi ve li faccio vedere).

Ho cancellato i testi nelle nuvole perché volevo farvi concentrare, ovviamente, su ciò che si vede.

Che cosa vediamo, dunque? Vediamo che ci sono due donne, una in primo piano e una in secondo. Vediamo che la storia ha un’ambientazione ben nota, un luogo comune. C’è il patio, c’è il cavallo, ci sono le montagne piatte sullo sfondo, c’è il mulino a vento, eccetera eccetera. Da qualche parte, anche se non la vediamo, ci sarà la coppia col forcone che conosciamo dalle copertine dell’Antologia di Spoon River. Noi sappiamo che l’ambientazione è convenzionale e non realistica, e tuttavia non antirealistica: il paesaggio della sterminata campagna statunitense è quello, c’è poco da fare.

Ora, l’esercizio (facile) consiste in questo: osservare i dettagli, per renderci conto di che cosa questa vignetta (la prima della storia) effettivamente ci dice. In realtà, che cosa ci dica voi lo avete già capito: solo che l’avete capito senza pensarci, automaticamente (come è giusto fare quando si legge un fumetto per passare il tempo; ma qui, ora, in questa sede, stiamo riflettendo sulla scrittura: e ci serve dunque andare a caccia dell’ovvio).

Poiché, come noto, le storie non sono storie di personaggi, ma di relazioni tra i personaggi (più perentoriamente: i personaggi non esistono, esistono le relazioni tra i personaggi), ci interesseranno quei dettagli che istituiscono e segnalano delle differenze tra le due donne. La relazione, infatti, nasce dalla differenza (se volete un esempio: Qui Quo e Qua sono, agli effetti della storia, un personaggio solo, in quanto non presentano differenze caratteriali stabili; mentre i Puffi sono stati accuratamente differenziati dal loro autore, Peyo, e quindi ciascuno è un personaggio autonomo); la relazione nasce dalla differenza, dicevo, e dalla relazione nasce la storia.

Le possibilità narrative dei social media: un corso della Bottega di narrazione
Le possibilità narrative dei social media: un corso della Bottega di narrazione
Osserviamo dunque:

– la postura. Mollemente stravaccata la donna in primo piano (ha alzato un po’ il busto solo per rivolgersi alla donna a cavallo; o forse per aprire il petto a un sospiro sospiroso), fieramente ritta la cavallerizza.

– lo sguardo. Rivolto all’insù (benché la testa sia leggermente inclinata verso il giù) quello della donna seduta, rivolto al cielo o al nulla, preso in un vagheggiamento; frontale per noi, rivolto decisamente all’altra, quello della cavallerizza.

– i capelli. Non mortificati, ma di lunghezza gestibile, quelli della cavallerizza; lunghi e boccoluti quelli della donna seduta.

– l’abbigliamento. Pratico (camicia, jeans) quello della cavallerizza, quasi da festa (gonnellone, scollatura) quello della donna seduta.

– le scarpe. Non so se si usassero scarpe col tacco 8 (almeno) nel selvaggio West, comunque è chiaro che con quelle scarpe lì la donna seduta non può uscire di casa (è quindi, importante da notare, una reclusa, mentre l’altra vive all’aria aperta).

– la lettera. La donna seduta ha appena alzato gli occhi da una lettera. Chi le avrà scritto? Qualcuno capace di indurre in lei lo sguardo perso e sognante già notato.

– le riviste illustrate. Una sul bracciolo, l’altra caduta a terra: a indicare un consumo compulsivo. Le riviste illustrate (pensiamo ai nosti fotoromanzi, anche se l’epoca è tutt’altra: ma tanto per farci un’idea) sono un segnale molto esplicito di bovarismo.

Ci sarebbe forse dell’altro, ma probabilmente ci basta questo. Da una sola vignetta abbiamo capito:

– che la storia è la storia di queste due donne;
– che le due donne sono diverse tra loro;
– che le due donne sono esattamente due metà di una ipotetica (e convenzionalissima) personalità femminile completa;
– che la storia sarà la storia della differenza, ovvero della relazione, tra queste due metà, che finiranno con l’opporsi duramente, o col riconciliarsi, eccetera;
– che lo scopo narrativo della donna in primo piano è mettersi nei guai, e quello della cavallerizza di tirarla fuori dai guai (anche se potrebbe esserci un ribaltamento, in cui la donna seduta tira fuori da un qualche guaio la cavallerizza: in questo caso avremmo una vera e propria storia di conversione);
– che la cavallerizza vive in un “mondo reale”, mentre la donna seduta vive in un “mondo di sogno”;
– che la relazione della cavallerizza col mondo maschile è pratica e spiccia e non sentimentale; l’inverso per la donna seduta (ma sarebbe interessante se, appunto, alla fine fosse la cavallerizza a innamorarsi veramente: perché lei, in quanto non affetta da bovarismo, può innamorarsi veramente);
– eccetera.

Ecco. L’esercizio può essere svolto su qualunque incipit di fumetto, o addirittura sulle copertine degli albi. Per esempio, la copertina di questo albo di Joann Sfar:

Messageries (vedi il salvagente) fu una storica compagnia di navigazione francese (1890-1974); il rabbino è immediatamente riconoscibile, mentre riconosciamo il gatto come gatto solo grazie al titolo; la ragazza sembra una specie di Esmeralda: l’uomo di spalle è un borghese; la città sarà Algeri, così a occhio (sbaglio?): il rabbino è ombroso, la ragazza è solare; il gatto tiene d’occhio la ragazza: che relazione ci sia tra la ragazza e il borghese, pare chiaro, ma la vera domanda è: rabbino-gatto-ragazza costituiscono un triangolo? E il borghese è forse un quarto incomodo? Leggétevi l’albo, di Joann Sfar, e lo saprete (io l’ho appena ordinato, ma ho già letto il riassunto).

Torniamo alla nostra prima vignetta. L’autore è Joseph Gillain detto Jijé. Ciò che volevo suggerirvi è che, prima ancora che i personaggi aprano la bocca, è possibile che siano precisamente definiti i loro ruoli (i ruoli nella relazione: perché, insisto, la relazione è l’unica cosa narrabile), e che si possa indovinare in parte la storia. Naturalmente lo scopo dell’apertura di una storia non è quello di far indovinare come andrà a finire (anche se, quanto più una storia è incardinata in un genere, tanto più di fatto è così): è di dare le carte, per così dire, è di far capire al lettore alcuni elementi fondamentali (contesto, tipo di relazione tra i personaggi – o, come altri direbbero, principali tratti caratteriali dei personaggi), come se la vignetta dovesse aiutare il lettore a decidere: “La leggo o no, ‘sta storia?”.

Per verificare un po’ le nostre ipotesi, vi do qui la vignetta con le nuvole leggibili; cliccandoci sopra potrete leggere l’intera storia. Io non l’ho ancora fatto, per prudenza: farete voi le vostre valutazioni.

A cosa serve, questa breve riflessione, per chi voglia raccontare delle storie scritte? Benché non ne manchino esempio, forse non è il caso di cominciare una storia con una dettagliata descrizione di posture, acconciature, abbigliamenti, scarpe, eccetera dei personaggi (benché i casi ci siano: basti pensare – esempio in verità classico e forse abusato – alla descrizione di Madame Vauquer e della sua pensione che apre il Père Goriot di Balzac): ma è opportuno

– avere bene in mente tutti quei dettagli; immaginare visivamente i personaggi, i loro luoghi, i loro abbigliamenti eccetera;

– mettere al lavoro tutti questi dettagli nel corso della narrazione.

Faccio un esempio, volutamente esagerato.


La mattina del 5 luglio 2018 Giuseppe andò al lavoro.

Domandiamoci: a che ora si è alzato, Giuseppe? Che ha fatto tra la sveglia e l’uscita? Come si è vestito? Come si è recato al lavoro? Che lavoro fa?, eccetera.

La mattina del 5 luglio, dopo mezz’ora di lotta inutile contro la sua storica stipsi, Giuseppe andò al lavoro. Sul tram, come al solito, lo colse lo stimolo. Arrivò in ufficio tutto sudato, si fiondò nel bagno senza salutare i colleghi, maledisse la mancanza del bidè, benedisse l’abitudine di portare in borsa un paio di mutande di ricambio e una busta di plastica, e si liberò.
Andava così, pressoché tutti i giorni, da ventidue anni.

L’esempio è esagerato e caricaturale, ma caricare serve per rendere più evidente. Quanti tratti caratteriali di Giuseppe vengono fuori, da questo breve inizio? Per esempio, e non è poco, non solo l’abitudinarietà, ma anche una sorta di adattamento fisico all’abitudine. E ci si può domandare se sia stata la sua caratteriale abitudinarietà a generare le abitudini del corpo, o se siano state le abitudini del corpo a generare l’abitudinarietà caratteriale.

De hoc satis. Quel che c’era da dire, credo, l’ho detto. Riassumo con una massima:

Se non immaginate con gli occhi, e nel dettaglio, e notando i dettagli significativi, ciò che volete raccontare, non riuscirete a raccontarlo decentemente.

3 pensieri riguardo “Scrivere con gli occhi: un esercizio e un suggerimento pratico

  1. Mah, mah. Ho letto la tua lettura, e mi dicevo: boh! Quello che ho visto io è qualcos’altro, tipo: probabilmente le due sono sorelle, cioè sono legate da legami di famiglia e di interessi, altrimenti se ne andrebbero ciascuna per la propria strada. La bionda in pp è chiaramente una troia, diciamo una che ‘vita allegra’: vestita così in pieno West e di mattina, pizzi e merletti sono mostruosamente esagerati, le scarpette alte fan ridere i polli. Altro che Bovary, a me ricorda più Odette de Crécy. L’altra è più sul lesbico, e i suoi commenti alla sorella sono infatti pratici e scettici e critici. Così com’è questa illustrazione non sta in piedi, e le parole dei fumetti correggono si’ un po’, ma non abbastanza. Questo tuo esercizio mi ricorda la tavola di un fumetto che ho visto in passato, un bruto alto e sinistro che regge per i piedi una bella fanciulla, cercando di forzarla a non so quale pratica erotica, e il fumetto di lei grida: Noooo ! Nooo! Aiuto, ecc ecc. Me la sono studiata un po’ questa tavola, peraltro bellissima, perché mi pareva che ci fosse qualcosa di strano. Lo strano, l’ho capito dopo un pochetto, era la postura di lei: non inarcata, angolosa, disperatamente tesa ad evitare ecc ecc, ma anzi morbida e collaborativa. CVD.

    Inviato da iPhone

    >

  2. Ma, Elenaide, se per te basta un pizzo a fare di una donna “una troia”, e un abbigliamento pratico a fare di un’altra “una lesbica” – non so che dire.

  3. Dove voi ci vedete il far west americano e due sorelle (una bionda e una rossa? vabbè che pure il cavallo viola non mi sembra molto corretto) io ci vedo l’Australia e due diverse versioni di Nicole Kidman. Quella seduta per me si sta sventolando dal caldo (ok, forse sono un tantino fuori strada a causa della mia condizione soggettiva) e lamentandosi di qualcosa o di qualcuno, magari per l’abbigliamento lei è l’addetta alle public relations della fattoria e deve discutere a pranzo di chissà quale balzello da pagare al Governatore. L’altra a cavallo sta partendo alquanto di fretta e la sta chiedendo se non vuole fare cambio, che radunare la mandria sotto il sole cocente per miglia e miglia è sicuramente più faticoso. Sorelle, amiche, amanti? Bisognerebbe seguire tutta la storia per dirlo. Magari è arrivato il nuovo Governatore. Al posto del defunto Mr. Brooks morto a cavallo, non tanto per colpa del cavallo, quanto per le tre bottiglie di whisky che s’era scolato, giunge un giovane e aitante Hugh Jackman. E queste due finiranno per tirarsi i capelli… 🙂
    (Belli gli albi di un tempo… ho ancora una rabbia immensa perché qualcuno a casa per errore ha gettato al macero una ventina di Tex e Diabolik. I miei manga sono sotto chiave, ma non hanno lo stesso sapore…)

I commenti sono chiusi.