Ci sono più figure retoriche nella prima pagina di un giornale quotidiano che in tutti i trentotto capitoli de “I promessi sposi”

di Giulio Mozzi

Nel suo Trattato sui tropi (Traité des tropes), pubblicato nel 1730, il filosofo e grammatico francese César Dumarsais si diceva, un po’ giocosamente e un po’ sul serio, persuaso che “si facciano più figure retoriche in un solo giorno di mercato alle Halles che in molte giornate di assemblee accademiche”. Chi abbia un’idea della retorica come “vuoto esercizio di stile” o qualcosa del genere (la pensava così anche Benedetto Croce), potrebbe forse stupirsi. Ma la verità è che la retorica, o almento la retorica “ristretta” (quella che si occupa delle figure, appunto; mentre quella “allargata” si occupa anche della forma generale del testo, dell’invenzione, del modo di porgere – oralmente o graficamente – il testo stesso, ec.), è un cibo del quale ci nutriamo tutti i giorni. Diventarne consapevoli è importante: e non certo (come sosteneva fosse opportuno il già citato Benedetto Croce) per evitarla; tutt’altro: per farne buon uso.

Fermiamoci un attimo a ricordare la definizione di “tropo” (e ricordiamo che, in molte classificazioni dei fenomeni liguistici e stilistici, “tropo” e “figura retorica” a volte quasi coincidono, a volte no, a volte – addirittura! – si scambiano di posto). Ci affidiamo al Dizionario Treccani:

tropo In linguistica, figura semantica o di significato per cui una espressione dal suo contenuto originario viene ‘diretta’ o ‘deviata’ a rivestire un altro contenuto. Tra i t. (generalmente distinti dalle figure di parola e di pensiero: ➔ figura) vengono classificati fenomeni come la metafora, la metonimia, la sineddoche e altri su cui i trattatisti non sono unanimi: ironia, litote, iperbole, antonomasia ecc.

Ora facciamo un esercizio. Scelgo come esempio, del tutto arbitrariamente, la prima pagina di un quotidiano di oggi; precisamente de La Stampa, che è il quotidiano che si legge nella località dove oggi mi trovo.

Quanti tropi ci sono nei titoli di questa pagina? Ovvero: nei titoli di questa pagina, quante parole sono usate con un senso modificato (“traslato”, spostato) rispetto al loro senso proprio?

Cominciamo dai titoli principali. Assicuro che non vi annoierò con le tradizionali minuziose tassonomie delle figure retoriche: ogni volta che mi sono messo a studiarle, io stesso le ho dimenticate non appena ho chiuso il libro.

– La spallata di Salvini al governo.
E’ evidente che nessuno si è messo, ieri in Senato, a dare colpi con la spalla ai banchi dove siede il governo (o ai governanti stessi). Quindi “spallata” è una parola usata non nel suo senso proprio.
E’ meno evidente, poiché siamo ormai abituati alla cosiddetta “personalizzazione della politica”, che anche “Salvini” è una parola usata non nel suo senso proprio: non indica, infatti, in realtà, la persona fisica del signor Matteo Salvini, bensì la forza politica, la Lega, della quale il signor Matteo Salvini è attualmente il “segretario federale” (è una sineddoche, o giù di lì).

– Di Maio pronto a sacrificare il titolare dei Trasporti. Ma nel M5S cresce il fronte di chi vuole il divorzio
Qui forse, diversamente da quanto abbiamo detto per “Salvini”, “Di Maio” va inteso nel senso proprio: la volontà che la frase esprime potrebbe essere proprio la volontà del signor Luigi Di Maio, “capo politico” del Movimento 5 stelle. Infatti dal contesto risulta chiaro che qui il signor Di Maio non parla, o sembra non parlare, o sembra non riuscire a parlare, a nome di tutto il movimento del quale è capo politico.
L’attuale ministro dei Trasporti può dormire sonni tranquilli: forse perderà il posto, ma certamente nessuno lo sdraierà su un altare, legato mani e piedi, per separare i suoi organi interni ed offrirli a una qualche divinità. Il verbo “sacrificare” è usato non nel suo senso proprio.
“Titolare”, secondo il Treccani, è chi “esercita una funzione, o detiene una carica e un ufficio, o ha un particolare beneficio, in base a un titolo e diritto specifico”. Mi pare evidente che non esistono “titoli” o “diritti specifici” a essere ministri. Quindi la parola “titolare” è usata non nel suo senso proprio.
“Fronte” è il risultato di un doppio scostamento. “Nelle formazioni militari è detta posizione di fronte la disposizione di una squadra, di un plotone e sim. in cui i soldati si allineano uno di fianco all’altro su una o più righe”; da qui si è passati all’altro significato miliare (in cui la parola è sempre maschile): “spiegamento di un complesso di forze o di una unità, misurata sul davanti, da un fianco all’altro, oppure la linea di contatto tra due forze contrapposte” (Treccani). Quindi, in questo titolo, “fronte” non è usato nel suo senso proprio (perché non vi sono stati contatti fisici tra “complessi di forze”, ec., e comunque perché il M5S non è una formaziome militare.
“Cresce” è usato qui forse nel senso di “aumenta di numero”, forse nel senso di “aumenta d’importanza, di potere”: o forse in entrambi i sensi. Ma, propriamente, “crescere” si dice di “dell’uomo, degli animali, delle piante” (Treccani), non di una formazione militare né di una fazione di un partito. Quindi qui la parola “crescere” è usata non nel suo senso proprio.

Sull’orlo della crisi balneare
Qui il gioco è complesso. Si sommano due operazioni:
(a) La citazione del celebre film di Pedro Almodòvar Donne sull’orlo di una crisi di nervi
(b) La citazione (rovesciata, per così dire) di un’espressione tipica del gergo politico italiano, “governo balneare“, coniata già nel 1921 per indicare governi costituiti, spesso alle soglie dell’estate, e talvolta senza una maggioranza impegnata a sostenerli, al solo scopo di mandare avanti la gestione ordinaria in attesa di un accordo tra le forze politiche che porti alla costituzione di un governo forte.

Spettro della recessione sulla locomotiva tedesca
Qui i treni fantasma non c’entrano. “Spettro” è qui genericamente usata per indicare “qualcosa che fa paura, molta paura”, e quindi “una grande paura”: paura della recessione. Ancora un uso in senso non proprio.
Non so quando sia entrata nell’uso l’espressione “locomotiva tedesca” per indicare – con apprezzamento per la sua continua crescita – il sistema economico tedesco. In ogni caso, “locomotiva” è parola usata non nel suo senso proprio.

– Il rischio del domino
Qui “domino” sta per “effetto domino”, ed “effetto domino” è un’espressione che si usa “con riferimento a cose (istituzioni, aziende, ecc.) che subiscono effetti o cambiamenti una dopo l’altra, a catena, come i pezzi del domino” (Treccani). Come i pezzi del domino, ma le istituzioni e le aziende non sono pezzi del domino: la parola “domino” è quindi usata in senso non proprio.

E così via. Se avete voglia, continuate l’esercizio con gli altri titoli della pagina. Io mi limito a due considerazioni:

(a) Se eravate convinti che i giornali siano, come si diceva una volta, “organi d’informazione”, dovreste ormai esservi ricreduti. Una prima pagina come questa è tipica piuttosto di un “organo d’emozione”. Il linguaggio dei titoli (e si sa che la maggior parte di noi, che si leggano giornali di carta o giornali digitali, legge molti più titoli che articoli interi) è abbondantemente connotativo e assai poco referenziale: serve assai più a provocare un sentimento (o un risentimento) che a dare informazioni. Ma non è questo il centro del discorso, che è invece:

(b) Se avete trovata noiosa l’analisi, e se vi è sembrata un noioso viaggio alla scoperta dell’ovvio, domandatevi per piacere: se, di norma, quando guardate la prima pagina di un giornale, o quando leggete un qualunque testo, la vostra sensibilità sia sempre così attiva da notare tutti i fenomeni del genere? E, mentre scrivete, credete di essere capaci di accogervi di tutti i fenomeni di questo tipo che avvengono nella vostra scrittura?

Se la risposta a queste due domande, o a una delle due, è “no”, dovete esercitarvi. Perché la scrittura è sì, per carità, abbandono; ma è anche controllo.

Ora vi invito a leggere questa pagina (la conoscete già, ma: rileggetela attentamente):

Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’ cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un sentimento.
Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, – no! – disse: – non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete -. Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: – promettetemi di non levarle un filo d’intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così.
Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l’inaspettata ricompensa, s’affaccendò a far un po’ di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: – addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri -. Poi voltatasi di nuovo al monatto, – voi, – disse, – passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola.
Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve.

E con ciò riteniamo che la tesi iniziale, ossia che vi siano più figure retoriche nella prima pagina di un qualunque giornale quotidiano che nei trentotto capitoli de I promessi sposi, sia ampiamente, sia pure implicitamente, dimostrata.

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