di Valentina Durante, docente nella Bottega di narrazione
A Palazzo Grassi, fino al 20 gennaio 2020, c’è una personale dedicata al pittore belga Luc Tuymans. Il titolo è La pelle, e se vi suona familiare confermo che sì, è proprio tratto dal romanzo omonimo di Curzio Malaparte. Ma non vi parlo della mostra a causa di Malaparte, bensì per ciò che accade allo spettatore quando vi si entra. Oltrepassato l’ingresso e sbrigate le usuali incombenze di biglietti e zaini, si nota subito il vasto mosaico a tessere bianche e nere che occupa quasi per intero la pavimentazione nell’atrio. Di primo acchito pare trattarsi proprio di questo, di un pavimento, tanto più che la gente ci cammina tranquillamente sopra. Poi ci si accorge della didascalia accanto a una delle colonne, si legge, e si apprende che quella è la prima opera della collezione. Tutti la calpestano e allora ti fai coraggio anche tu, superi quella diffidenza che ti prende (almeno prende a me) quando ti chiedono di stabilire una relazione fisica con un’opera d’arte, che ha pur sempre qualcosa di sacrale (almeno lo ha per me), e fai un passo. E un altro passo. E un altro ancora. La visione che appare è questa che vedete qui sotto:

Sotto le scarpe, l’immagine può essere qualunque cosa. Sembra un disegno astratto, e l’astratto può essere qualunque cosa. Una pianta? Un animale? Un’ombra? Un gesto rappreso a metà movimento? O forse una semplice sporcatura di pennello, una macchia di colore. Da questa posizione il mosaico non si capisce, e forse non si può neppure goderlo appieno. Io ho fatto questo pensiero: trovandosi all’interno di una foresta, è impossibile tracciarne la geografia. Non sapevo quanto mi fossi avvicinata profeticamente al vero.
All’ingresso ti consegnano una guida, molto ben fatta rispetto agli standard delle mostre che tendono a una certa avarizia. La guida invitava a salire una rampa di scale e a guardare il mosaico allineandosi al punto di vista dell’opera numero due. Questa era un dipinto che ritraeva un uomo, in primo piano, con gli occhi chiusi. Per guardare il mosaico ci si poneva davanti al dipinto dando le spalle all’uomo e prestandogli simbolicamente lo sguardo. Il mosaico ha preso questa forma:

Accantonato il sospetto dell’animale, della generica pianta, dell’ombra, del gesto o della macchia di colore, è apparso nettamente come foresta. Ma la visione restava disturbata, primo per l’ostacolo delle due colonne, poi perché il disegno, posto all’altro capo dell’atrio, arrivava agli occhi rovesciato. Il riverbero della luce che penetrava dall’ingresso mistificava la tinta delle tessere.
La guida diceva di salire una seconda rampa di scale, sporgersi dalla balaustra e osservare da lì. L’opera finalmente è comparsa tutta, e bene, e la vedete qui sotto.

Somiglia a un monocromo a inchiostro, un paravento cinese o giapponese con l’immagine suddivisa in pannelli, ma è tutt’altro. Il titolo è Schwarzheide e viene dal nome di un campo di lavori forzati in Germania. Alcuni detenuti realizzavano dei disegni in segreto e poi li ritagliavano a strisce per poterli nascondere e sfuggire così alla confisca. La ricomposizione dell’immagine poteva avvenire solo all’esterno. Per realizzare Schwarzheide, nato prima come dipinto nel 1986, Tuysmans ha attinto cospicuamente dai taccuini di Alfred Kantor.

La prima visione che dell’opera si ha, calpestandola, è impedita da un dissolvimento: l’ingrandimento diventa astrazione e l’astrazione non può trasmetterci alcun significato, di per sé, solo una impressione sensoriale. Possiamo avanzare delle ipotesi, interpolando o appellandoci a somiglianze così come ho fatto io – la pianta, l’animale, l’ombra, la macchia di colore – ma un’interpretazione certa è impossibile.
La seconda visione chiarisce il che cos’è – pur se la lettura resta disturbata dalla distanza e dal rovesciamento – ma soprattutto crea una relazione simbolica fra l’opera e lo spettatore. Ricordate l’uomo al quale era necessario dare le spalle e prestare lo sguardo? Si tratta di Albert Speer e il titolo del dipinto che lo ritrae è: Secrets.

Albert Speer era architetto capo del Partito nazista e ministro agli Armamenti e alla Produzione bellica del Reich. Dopo la liberazione dal carcere nel 1966, ha pubblicato due opere: Memorie del Terzo Reich e Diari segreti di Spandau. Sono state tradotte in quattordici lingue. Nel dipinto Albert Speer chiude gli occhi. Nei suoi libri non menziona mai la soluzione finale, della quale disse di non essere mai stato a conoscenza. Albert Speer apparteneva alla cerchia degli intimi di Hitler e nel dipinto chiude gli occhi: non può vedere Schwarzheide, dobbiamo farlo noi al posto suo, prendendo atto della sua volontà di non guardare.
La visione dell’opera diventa completa solo salendo due rampe di scale e affacciandosi dalle balaustre. Sembra che Tuymans voglia dirci: coloro che hanno vissuto la realtà dei campi, che sono morti, che sono dentro il mosaico e dentro la foresta – la successione di alberi neri che circondavano i campi, così che gli abitanti dei dintorni non li notassero o si sentissero legittimati a non notarli – non possono vedere, dunque non possono portare testimonianza. Neppure Speer vuole vedere, dunque anch’egli non può portare testimonianza. Spetta a noi, che siamo lontani dai fatti, fuori dalla foresta, sentire l’importanza del continuare a parlarne e di portare testimonianza. Noi siamo la cosa più importante, in quest’opera.
Tuymans fa quel che deve fare un bravo artista, pittore o narratore che sia: trascinare chi guarda o chi legge dentro un’illusione, facendogli credere che i suoi occhi, il suo guardare, in definitiva il suo esserci, siano la cosa fondamentale. Forse non è vero, forse l’opera esisterebbe anche senza di noi, ma quel che conta è che noi abbiamo l’impressione che sia così, che l’opera sia qualcosa di necessario e necessitato proprio in virtù della nostra presenza. L’artista può imporci di stare fermi in un punto, può farci volare nel cielo o entrare nelle menti e nelle anime altrui o spostarci in continuazione, farci sentire franti e esausti dall’impossibilità di abbracciamento del reale: ma sempre ci accompagna la sensazione che senza di noi tutto questo non sarebbe possibile e che l’opera, e forse anche l’artista, non esisterebbero.
[L’immagine di copertina è Luc Tuymans, Twenty Seventeen, 2017]
