di Valentina Durante
Per prima cosa, dedichiamo alla tradizione un paio di minuti. V’invito a leggere questo passo tratto dal libro VIII delle Metamorfosi di Ovidio: vi si narra il mito di Dedalo e Icaro, e per la precisione il momento in cui il padre allaccia le ali al figlio.
“Vola a mezza altezza, Icaro, mi raccomando, in modo che l’umidità non appesantisca le penne se vai troppo in basso, e il calore non le bruci se vai troppo in alto. Vola tra l’una e l’altro, e ti avverto, non ti distrarre a guardare Boòte o Èlice e la spada snudata di Orione. Vieni dietro, e ti farò da guida”. Gli dava le istruzioni per volare, e intanto gli applicava alle braccia quelle ali mai viste. Mentre lavorava e dava consigli, s’inumidirono le sue guance di vecchio, tremarono le sue mani di padre. Poi baciò il figlio – furon gli ultimi baci – e levatosi sulle ali volò davanti, timoroso per quello che lo seguiva (come l’uccello che dall’alto nido porta fuori per l’aria la sua tenera prole), esortandolo a non restare indietro, erudendolo in quell’arte pericolosa, battendo le ali proprie e voltandosi a guardare quelle del fanciullo.
Qualcuno che prendeva i pesci con la tremula lenza, qualche pastore appoggiato sul suo bastone o contadino appoggiato sul manico dell’aratro, li vide e rimase sbalordito, e pensò che fossero dèi questi esseri capaci di muoversi per il cielo.
E già si erano lasciati a sinistra Samo, sacra a Giunone, e Delo e Paro, e a destra avevano Lebinto e Calimne ricca di miele, quando il fanciullo cominciò a prender gusto all’audace volo, e si staccò dalla sua guida, e affascinato dal cielo si portò più in alto. La vicinanza del sole ardente ammorbidì la cera odorosa che teneva unite le penne. Si strusse, la cera; lui agitò le braccia rimaste nude, e non avendo con che remigare non si sostenne più in aria, e invocando il padre precipitò a capofitto, e il suo urlo si spense nelle acque azzurre, che da lui presero il nome.
(la traduzione è di Piero Bernardini Marzolla)
La storia di Dedalo e Icaro non è paternità di Ovidio, eppure con il testo ovidiano si sono dovuti confrontare un po’ tutti coloro – narratori, poeti, pittori e scultori – che hanno voluto proporre una loro propria interpretazione del mito: ecco il puntello della tradizione.
Nelle Metamorfosi sono centrali i valori di medietas e di hybris. La narrazione è chiaramente allegorica: si racconta una cosa – Dedalo costruisce le ali di penne e cera, Icaro le adopera sventatamente e muore – per raccontare una verità sull’umano: ogni qualvolta l’uomo trascende i suoi limiti e ignora la sua finitudine, va a finire male. Dedalo invita il figlio alla medietas, che per l’etica classica era l’unica possibilità di salvezza – “Vola a mezza altezza, Icaro, mi raccomando” –, eppure a esser rigorosi è proprio lui, l’ardito inventore, il primo a trasgredire, peccando con la costruzione di quelle ali innaturali (e, prima ancora, di una vacca di legno, con la quale Parsifae si farà ingravidare da un toro). È Dedalo il folle, e però è stato Icaro ad accendere l’immaginazione dei posteri: lui, che in prima persona osa sperimentare l’ebbrezza del volo senza costrizioni. Pagherà con la morte.
Leggendo con attenzione il testo di Ovidio, ci accorgiamo che è incentrato su un movimento di due tipi: ascensionale prima e discensionale, o meglio di precipitazione, poi. Questa verticalità nelle due direzioni attraversa i quattro elementi, che per gli antichi erano – in senso crescente di dignità – terra, acqua, fuoco e aria. L’impianto della storia è simbolico: un uomo (terra) cerca di abitare il cielo (aria) come farebbe un dio; ma viene punito dal sole (fuoco) e perisce in mare (acqua). Nelle Metamorfosi c’è un altro mito simile: quello di Fetonte. Il mortale Fetonte (terra), per provarsi figlio di Dio, chiede e ottiene di guidare nel cielo il carro di Apollo (aria); per imperizia causa devastazione sia in cielo che in terra, finché Zeus lo colpisce con la sua folgore (fuoco) facendolo precipitare nel fiume Po (acqua). Icaro e Fetonte sono stati spesso affratellati e citati assieme, tanto che l’uno va letto anche alla luce dell’altro, e viceversa. Fetonte è un uomo solo, e anche Icaro nel tempo lo è diventato: relegato il padre Dedalo a eventuale deuteragonista, scrittori e artisti han finito sempre per parlare di lui, scegliendo o di esaltarlo o di condannarlo: pazzo o eroe? Uomo ambizioso fino a perdere il senno (logico che abbia dovuto espiare), oppure amante della libertà sino al martirio? La sua figura si è ridotta all’epitome di due opposti morali.

In pittura e scultura, tale riduzione ha portato gli artisti a concentrarsi su due scene: Dedalo che allaccia le ali alla schiena di Icaro, e Icaro che precipita e muore. In entrambe il soggetto, e colui che dà sempre titolo all’opera, è Icaro. La scena dell’allacciamento delle ali è un pretesto per mostrare la bellezza del corpo del giovane e, per traslato, la bellezza del desiderio, del coraggio, dell’intelletto – l’ardore e l’ardire. Caduta e morte rappresentano ora la condanna dell’atto, in linea con l’originario intento del mito, ora il compianto per questo meraviglioso folle, che ha osato e nell’osare è stato vinto (ma solo nel corpo; il suo spirito vive, e ispira gli uomini).
Non diversamente hanno fatto gli scrittori, e per un Dante che si paragona, nella paura, a Icaro e Fetonte, quando racconta la sua straordinaria e tremenda esperienza sulle spallacce di Gerione (Maggior paura non credo che fosse / quando Fetòn abbandonò li freni, / per che ‘l ciel, come pare ancor, si cosse; / né quando Icaro misero le reni / sentì spennar per la scaldata cera, / gridando il padre a lui ‘Mala via tieni!’ – Inferno XVII), troviamo un D’Annunzio che rilegge la mediocritas classica come mediocrità moderna, tutta vile e per nulla aurea, e che vede in Icaro il concretarsi di un autodistruttivo, ma per questo eroico, titanismo (Oh del figlio di Dedalo alta sorte! / Lungi dal medio limite si tenne / il prode, e ruinò nei gorghi solo. – dal sonetto L’ala sul mare)

L’estetica patinata e iperrealistica di David LaChapelle ci porge il suo messaggio sociale attraverso un cortocircuito: il peccato non è il tendere verso il Cielo – il sacro è oggi svilito, semmai, o decentrato rispetto a dove dovrebbe stare. Il peccato è costruire ali meccaniche, non porre freno alla nostra stessa intelligenza di creature. Il peccatore qui è allusivamente Dedalo, come già nelle Metamorfosi, ma la centralità resta comunque di Icaro: solo, morto, attraverso la tecnologia e dentro la tecnologia. Il suo ruolo di primattore non viene scalfito. Marc Lagrange ci propone un Icaro in versione femminile; è una Icaro che riscopre la sua dimensione animale, atavica, a dire che la libertà coincide con l’accettazione del nostro io naturale e istintuale – tema assai caro alla odierna società virtuale e iperconnessa. Eppure, per quanto nuove e ardite possano sembrarci queste riletture, esse non lo sono per nulla. La tradizionale dicotomia sta sempre lì: eroe o demonio, pazzo o visionario, anima perduta o anima bella. Icaro sta lì, enorme monolite mentale.
È talmente enorme, che ci si può anche sbarazzare del resto, di tutta quanta la storia. Lasciarlo da solo, nella sua nudità di simbolo, contenitore anonimo a polarità alternate – positivo o negativo – da riempire con qualunque cosa, a discrezione. Non ho letto questi tre libri, ma sospetto che nessuno parli dell’Icaro figlio di Dedalo, che con le ali impastate di cera si levò in alto a sfiorare il sole eccetera eccetera. Icaro lo troviamo qui sotto forma di “sindrome” o addirittura – Seth Godin è il famoso bestsellerista della Mucca viola – di sfizioso concetto di marketing.
E ancora: date un’occhiata alla quantità di canzoni in cui compare la figura di Icaro.
Se del mito di Dedalo e Icaro vogliamo trovare una interpretazione veramente nuova, dobbiamo tornare indietro nel tempo. È il 1558, quando Pieter Bruegel il Vecchio dipinge questo Paesaggio con la caduta di Icaro.

L’opera è nota anche con il titolo Caduta di Icaro, ma lo trovo fuorviante perché qui, di Icaro, resta poco o nulla. Lo vediamo che affonda, sgambettando, a destra della composizione, ma di questo fatto non sembra importare niente a nessuno. Bruegel ha bene in mente Le Metamorfosi. Nel paesaggio (perché è il paesaggio il protagonista, qui), c’è tutto quanto Ovidio aveva scritto: il pescatore che piglia i pesci; il pastore appoggiato sul suo bastone; il contadino appoggiato sul manico del suo aratro. Ma se Ovidio questi uomini affaccendati li fa sbalordire alla vista di padre e figlio volanti nel cielo, mettendo loro in mente supposizioni di divinità, Bruegel li lascia del tutto indifferenti: il pescatore continua a pigliare i pesci; il pastore a pascolare il suo gregge (guardate la sua schiena, così ostentatamente voltata, chiusa al dramma di Icaro); e il contadino, figura in primo piano, a proseguire il suo lavoro a testa bassa, assecondando pensieri suoi. La tragedia si consuma in silenzio, dunque neppure è tragedia, in quanto non viene riconosciuta. Perde la sua funzione aggregatrice: i personaggi restano isolati e persi nella loro vita ed è lei, semmai, questa vita, a essere tragicamente autonoma.
L’opera di Bruegel ha reso nuova la storia di Icaro. Lo ha fatto sostanzialmente, trasformandola in qualcosa di diverso: non più glorificazione o condanna dell’ambizione umana, ma estrema prova della sua capacità di indifferenza. Qualcuno muore in mare? Facciamo finta di non sapere, di non sentire, di non aver visto, o che ci sarà qualcun altro, al posto nostro, o prima di noi, o dopo di noi, che avrà visto o vedrà, che avrà sentito o sentirà, così che noi si possa voltare la testa o abbassare gli occhi e, in definitiva, proseguire con la nostra piccola e solida vita che sa bastare a se stessa. Suona familiare?
Nel 1938 W. H. Auden scrive la poesia “Musée des Beaux Arts”. Trovate l’originale qui, oppure la traduzione su Nuovi Argomenti. Ma io v’invito, prima di proseguire nella lettura, a guardare questa bella interpretazione di Andrea Sirianni, qui.
Auden introduce nel suo testo la figura di Icaro, e sceglie di appoggiarsi a Bruegel. A Auden non sembra interessare più che tanto la figura dell’Icaro eroico: per lui Icaro non è che un ragazzo caduto dal cielo, le cui gambe bianche spariscono nell’acqua. A Auden interessa invece il modo in cui Bruegel è riuscito a narrare il dolore umano attraverso l’indifferenza, e l’indifferenza umana attraverso il dolore. E il dolore è ciò che accade mentre qualcuno mangia o apre una finestra o cammina annoiato o getta una lenza in mare o governa le pecore o spinge l’aratro su un campo. È un dolore che quando non ci riguarda non viene notato, e deve non essere notato proprio per non riguardarci.
William Carlos Williams pubblica la poesia Landscape with the Fall of Icarus nel 1960. Certo Carlos Williams ha ben presente il testo di Auden, ma anche la sua poesia nasce come omaggio a Bruegel, cosa dichiarata già nel titolo.
Cosa significa dunque confrontarsi con la tradizione? Forse sentirsi addosso la libertà di poter entrare in questo gigantesco repositorio di testi e immagini, sicuri di trovare la realtà di oggi anche in opere che dovrebbero, per definizione, rappresentare solo quella di ieri. Il punto è che fare poi di queste opere. Possiamo aderirvi, con uno spettro di variazioni che vanno dal molto al poco, ma che non perdono mai di vista il solco originario. Possiamo dissentire e fare tutto l’opposto, ben sapendo che il negativo resterà saldato al positivo al quale si contrappone. Oppure, possiamo spostare il nostro sguardo: non per viltà, stavolta, o grettezza, ma per cogliere di scorcio un aspetto, un particolare che finora era stato tenuto in ombra. Non era ancora venuto il suo tempo ma ora sì: gigante dormiente, noi lo abbiamo risvegliato.
[L’immagine di copertina è un particolare di Dedalo e Icaro, di Antonio Canova, 1779]
un’attenta analisi di tutti i particolari rendono in modo chiarissimo l’interpretazione di questa narrazione….complimenti!
Novecentomilaepiu: grazie per la lettura.