di Valentina Durante.
L’opera la conoscete: è famosissima.

Girolamo Francesco Maria Mazzola – conosciuto più spicciamente come il Parmigianino – dipinge Autoritratto entro uno specchio convesso nel 1524 così da aver sottomano un saggio del suo proprio talento: un’immagine da portfolio, diremmo oggi, da mostrare ai clienti al bisogno. Si mette difronte a uno specchio convesso, di quelli adoperati dai barbieri, e poi ritrae quello che vede. La mano, più vicina allo specchio, cresce a dismisura, mentre la testa si rimpicciolisce affondando nel grigio della parete retrostante. Se vi è mai capitato di sfogliare il fortunato manuale di Betty Edwards Disegnare con la parte destra del cervello, avrete notato che molti esercizi consistono in copie dal vero di un’immagine distorta rispetto alla sua presentazione usuale: capovolta, specchiata, o in parte coperta. In questo modo, spiega la Edwards, s’inganna l’emisfero sinistro del cervello, quello dominante, lasciando campo libero al destro. O, per dirla con parole buone anche per lo scrivere, l’immagine deformata, proprio in virtù di questa sua deformazione, non viene corretta dalla retorica del sé nella quale usualmente l’autore si esprime. A volte, credendo di riprodurre ciò che vediamo, finiamo per rappresentare ciò che del soggetto sappiamo, o crediamo, o desideriamo. E a volte, scrivendo, siamo convinti di mettere in scena una realtà quando invece stiamo proponendo o addirittura imponendo un’idea di realtà, un sembiante così astratto e poco connotato che proprio non ce la fa a illudere il lettore.
Nel 1959, il poeta John Ashbery visita il Kunsthistorisches Museum di Vienna. Vede l’autoritratto del Parmigianino e ne rimane affascinato. Nel 1977 esce il suo poemetto Self-Portrait in a Convex Mirror (recentemente ripubblicato in Italia presso Bompiani, a cura di Damiano Abeni), i cui versi iniziali tanto fedelmente rappresentano il dipinto da potersi definire un’ekphrasis. Continua poi Ashbery (qui usiamo la traduzione di Aldo Busi):
The glass chose to reflect only what he saw
Which was enough for is purpose; is image
Glazed, embalmed, projected at a 180-degree angle.
Lo specchio preferì riflettere solo ciò che egli vedeva,
cosa che era sufficiente al suo scopo: la sua immagine
invetriata, imbalsamata, proiettata a un angolo di 180°.
Ora, secondo me la parola specchio, qui, sta a identificare non solo l’oggetto, il dispositivo riflettente, ma anche per così dire l’io pingente, il fantasma dell’artista che allo stesso tempo lega e separa il reale dalla rappresentazione del reale. Provo ad adattare quei tre versi a un contesto di scrittura: lo specchio (l’io narrante) preferisce riflettere solo ciò che l’autore vede e che basta al suo scopo: l’immagine di sé, però invetriata (separata dal reale tramite un vetro, un filtro, filtrata); imbalsamata (non più vivente, dunque viva solo in quanto ricordata; anche qui, sottoposta al filtro della memoria); proiettata a un angolo di centottanta gradi, in altre parole distorta. Questa è la ricetta per l’autorappresentazione che Ashbery, come quegli esperti di restauro che indagano una pittura per decrittarne i pigmenti usati e le essenze e i minerali e gli oli, desume dal dipinto del Parmigianino.
Due anni prima di Self-Portrait in a Convex Mirror, Ashbery aveva pubblicato la raccolta Houseboat Day. In Houseboat Day è contenuta la poesia Daffy Duck in Hollywood dove Ashbery, l’io poetante, parla in prima persona immaginandosi come Daffy Duck, l’anatra cartoon della Warner Brothers (un film Daffy Duck in Hollywood peraltro esiste realmente: diretto da Tex Avery e uscito nel 1938. Potete guardarne uno spezzone qui).
Nell’osservare come Ashbery abbia fatto con la sua poesia esattamente quel che il Parmigianino ha fatto con il suo autoritratto – riprodurre di sé ciò che vedeva, ma dopo essersi distorto –, ho pensato che una cosa simile io l’avevo già vista, sempre a proposito di un personaggio cartoon e sempre ambientata a Hollywood: si tratta di un racconto di Giulio Mozzi, Paperoga di notte, contenuto nella raccolta La felicità terrena (Einaudi, 1996; Laurana, 2012).
Ogni volta che prendo in mano un romanzo o un racconto, so che avrò a che fare con una storia di finzione. C’è il patto col lettore e la sospensione dell’incredulità, certo, ma questa sospensione avviene sempre all’interno di un mondo altro; la consapevolezza dell’alterità sta sempre lì, come una lampada di sicurezza accesa quando tutte le altre luci si spengono. L’io narrante è una funzione del testo al pari di tutti gli altri personaggi, e i fatti accadono attraverso la lingua e nel territorio della lingua. Ci sono però dei testi che suscitano in me una maggiore illusione di realtà, e sono quelli che tendo a rileggere più spesso e ai quali più resto legata. Attenzione, perché non sto parlando di mimesi: chi scrive non deve a mio giudizio riprodurre la realtà, bensì rifondarla, costringere l’inesistente a esistere dando al lettore la certezza che, nel territorio in cui ci troviamo, io e tu, lettore (io che sospendo in te il dubbio e tu che accetti che questo venga sospeso), è accaduto. Nei racconti di Mozzi l’illusione di realtà è sempre molto forte. Lo è naturaliter in quelli, narrati in prima o in terza persona, in cui il protagonista sembra coincidere con il vero Giulio Mozzi: perché vive nella città di Padova, lavora in una libreria specializzata in testi scientifici, non possiede l’auto, va all’ufficio postale in motorino, spedisce e ritira i pacchi per conto della libreria eccetera eccetera. Ma lo è anche in racconti come La madre del bambino morto o Michele di corsa, dove il protagonista è chiaramente qualcun altro: una persona che non è Giulio Mozzi o in cui, se mai Giulio Mozzi vi si annida (come certo vi si annida, se in fondo tutto è autobiografia), la sua presenza è tanto contraffatta da passare inosservata.
Eppure c’è un mistero, perché (e a lungo non sono riuscita a spiegarmene il motivo), il racconto de La felicità terrena che produce in me la massima illusione di realtà è proprio Paperoga di notte. In Paperoga di notte non si finge di parlare di Giulio Mozzi, e neppure di un uomo soprannominato Paperoga dove Giulio Mozzi potrebbe con facilità nascondersi; si parla del Paperoga quello vero, anzi quello finto, in somma il Paperoga della Disney, che agisce come agirebbe Paperoga se realmente, e in questo mondo, esistesse.
La storia è ambientata non più a Padova, ma in una città che intuiamo essere Los Angeles. Paperoga vive in una villetta da dove si può ammirare l’oceano, lavora in uno studio cinematografico e, quando non lavora, guida l’automobile facendo su e giù lungo la superstrada costiera. Si porta a letto le intervistatrici dopo esser stato intervistato e, da bravo losangelino, non fa una piega quando la rena si squassa per una scossa di terremoto. Tutto ciò è molto distante dagli altri racconti de La felicità terrena, che si svolgono in un contesto italiano, di provincia, animato da personaggi tutto sommato normali che hanno una famiglia, amici, amori, desideri o l’impossibilità di questi desideri, che hanno avuto dei lutti e che hanno delle nevrosi, magari estremizzate, ma con una cifra pur sempre riconoscibile e domestica. Eppure leggendo si genera in me l’impressione di un Paperoga per niente cartoon ma inequivocabilmente uomo, con indosso una di quelle maschere che si usano a Carnevale, in plastica rigida, dipinte, grottesche talvolta, con i buchi negli occhi e l’elastico per tenerle ferme sulla nuca.
Credo che il trucco stia proprio in questa maschera, che agisce in Paperoga di notte, così come in Duffy Duck In Hollywood, da specchio convesso. Essa paralizza, inducendo l’autore, attraverso una sorta di antifrasi, a sentire con maggior evidenza proprio ciò che viene in apparenza bloccato – il reale. Non è che il mascheramento renda più disinibiti, no. È che la distorsione produce una deviazione dalla realtà sino a frantumarla, offrendo poi l’opportunità di ricomporla: rifondarla, appunto, ritrovandola più eloquente, colma non solo di realtà ma anche di verità (e io sento il culmine di tutto ciò specialmente nella bellissima frase finale, che introduce un improvviso cambio di passo, come se in quel momento il fondale dipinto cadesse: “Se fosse giorno, forse, si vedrebbero passare le balene”).
Deviazione – deformazione – ricomposizione: chi altri lavorava allo stesso modo?

Ma sia Ashbery che Mozzi compiono, rispetto al Parmigianino e a Francis Bacon, una distorsione doppia: la prima stravolge l’io affidandogli la maschera di un personaggio di finzione il cui immaginario è già culturalmente codificato (Daffy Duck non è un’invenzione di Ashbery, così come Paperoga non lo è di Mozzi); la seconda opera sul personaggio di finzione un ulteriore intervento deformante: come si è visto, il Paperoga del racconto di Mozzi non è proprio il Paperoga al quale siamo abituati, quello dei fumetti Disney. E se c’è una grande distanza fra Mozzi e Paperoga – quella Los Angeles che non è Padova, quell’auto sulla superstrada costiera che non è il bus o il motorino per andare in posta –, c’è una distanza non meno grande fra il Paperoga che beve tè freddo in terrazza teorizzando filosoficamente sulla sua propria goffaggine, e la goffaggine “reale” che il Paperoga della Disney, tonto per davvero, mette in scena nel fumetto. Ma è proprio questa operazione di non plausibilità (implausibilissimo che Paperoga legga Cartesio o Aristotele!) a determinare tensione narrativa attraverso il personaggio, poiché la torsione si esaspera. In un certo senso, ci troviamo difronte a un procedimento inverso a quello dell’ironia. Se l’ironia è una forma di dissimulazione che costringe l’ascoltatore o il lettore a manipolare il significato generale strizzandolo, per così dire, per estrarne il succo del senso specifico, la paperoghizzazione, la daffyduckizzazione e in generale l’uso distorto di un camuffamento è il fallimento della dissimulazione stessa: dalla maschera strapazzata affiora una crepa, e dalla crepa la restituzione di quel reale che si è detto – più vero del vero.
Voglio mostrarvi questo meccanismo in azione per l’ultima volta, attraverso l’opera di un videoartista giapponese: Takeshi Murata, che nel corto I, Popeye (2010) ha scelto di vestire i panni di Braccio di Ferro:
L’estratto è breve, ed è un peccato. Intuiamo qui un Popeye vecchio, fallito, finito, rabbioso, ma non ne comprendiamo i motivi. Potendo accedere al video per intero (era disponibile alcuni anni fa, ora non più), vedremmo antefatto ed epilogo: Olivia è morta, Bruto, l’eterno nemico, combatte con la fase terminale di un cancro e Popeye, che ormai vive di soli ricordi, si risolve a prendere una corda, farne un cappio e impiccarsi – fallendo anche in questo. Una critica ai cliché rubricati dentro il contenitore “americana”? Sicuramente. Ma anche, forse, un atto di estremo coraggio attraverso la vulnerabilità: l’artista sceglie non di recitare la parte dell’antieroe, bensì di frantumare il concetto stesso di eroismo come superamento o padroneggiamento di sé. Ecco, guardatemi: tanto sono incapace di superarmi, tanto sono inadeguato nel raggiungere un distacco da me per vincermi, che faccio franare sotto il mio peso immaginazioni e finzioni che pur non dovrebbero riguardarmi. Anche nel gioco, nello scherzo, nel pupazzo goffo, tozzo, tonto e imbranato, nel cartoon e nella macchietta e nella parodia, io non arretro di un passo, sapendo che nessuno, nessuno è più vulnerabile ed esposto e nudo e smascherato di chi si prende sempre, tremendamente sul serio.
E di specchi e rispecchiamenti parleremo in abbondanza in “Scritto ad arte”, il primo corso-laboratorio che fa uso delle arti figurative come strumento per immaginare, inventare e comporre un testo letterario. Avete dato un’occhiata al bando?
Note.
L’immagine di copertina è uno still da video di I, Popeye, di Takeshi Murata, 2010.
La traduzione di Self-Portrait in a Convex Mirror è di Aldo Busi e viene da qui. Ma Autoritratto entro uno specchio convesso di Ashbery è stato di recente ripubblicato da Bompiani, a cura e per la traduzione di Damiano Abeni.