Quando Černobyl’ diventa Chernobyl: la tensione fra realtà e realismo in narrazione

di Valentina Durante.

Iniziamo dalla realtà.

Il disastro di Černobyl’ avvenne il 26 aprile 1986 alle ore 1:23:45 del mattino, presso la centrale nucleare V.I. Lenin, situata in Ucraina settentrionale (all’epoca parte dell’Unione Sovietica), a 3 km dalla città di Pryp”jat’ e 18 km da quella di Černobyl’, 16 km a sud del confine con la Bielorussia. È stato il più grave incidente nucleare mai verificatosi in una centrale nucleare, e uno dei due incidenti classificati come catastrofici con il livello 7 (massimo della scala INES) dall’IAEA”.

Così Wikipedia, che seguita nella voce dedicata al “Disastro di Černobyl’” descrivendo le caratteristiche della centrale, le dinamiche dell’incidente, la gestione della crisi e le responsabilità e conseguenze del disastro, sia immediate che dilazionate nel tempo, dando conto delle grosse difficoltà nello stimare un numero certo di vittime (esistono cifre diverse, prodotte da enti diversi e a volte incompatibili fra loro). Questi, in estrema sintesi, i fatti.

Il disastro di Černobyl’ è il soggetto di una miniserie televisiva in cinque puntate – Chernobyl – creata e scritta da Craig Mazin e diretta da Johan Renck. Le vicende narrate si basano su documenti storici non di prima mano – i resoconti degli abitanti di Pry”pjat’ raccolti da Svetlana Alexievich in Preghiera per Černobyl’ – e su un saggio: Chernobyl 01:23:40, di Andrew Leatherbarrow. Il processo che commuta i fatti in finzione può essere secondo me utile per osservare lo scarto che unisce e separa realtà e realismo: come si produce il passaggio dall’una all’altro? In Chernobyl ho considerato quattro movimenti:

­- dall’incoerenza alla coerenza;

– dalla moltitudine al singolo;

– dall’astratto al concreto;

– dall’invisibile al visto.

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  1. Dall’incoerenza alla coerenza

La realtà è incoerente. Gli eventi si producono spesso in concatenazioni disordinate, poco fluide e persino contraddittorie e la linearità sembra più una postura di chi osserva che una caratteristica di ciò che è osservato. Una costruzione mentale fatta a posteriori, pane commestibile per la razionalità. Nella realtà è difficile intercettare un univoco e terso rapporto di causa ed effetto fra le cose, ed è altrettanto difficile, di queste cose, identificare un inizio e una fine. Se dovessimo non raccontare, ma trasporre tal quale il disastro di Černobyl’ da dove partiremmo? Dal 26 aprile 1986? Dall’ora, dal minuto, dal secondo esatti dell’incidente? O da prima, magari dalla costruzione della centrale? Ma Černobyl’ è stato un evento multifattoriale, variamente graduato sotto la sua superficie, e questi fattori sono a loro volta sparpagliati dentro altri processi altrettanto opachi che chiamano in causa altre persone, altre vite, altri eventi; per essere esaustivi dovremmo parlare anche dei primi esperimenti (a Černobyl’ tutto nacque da un test) e poi: Hiroshima; come si può non menzionare la tragedia di Hiroshima? Hiroshima e Nagasaki hanno fornito la tremenda pietra di paragone per i disastri nucleari che sono venuti poi. Insomma, qui non se ne esce. Allo stesso modo non si esce dalla fine: Černobyl’ è ancora ben presente nelle nostre vite, intese come memoria e come corpi – chi può dire quali e quanti sono ancora oggi gli effetti delle radiazioni che abbiamo assunto (chi c’era) o che continuiamo ad assumere? E quel sarcofago che custodisce, tecnologico vaso di Pandora, ciò che resta del reattore in una finta quiescenza e che reclama attenzioni e manutenzione, ma è minaccia ancora produttiva?

Per contro, una narrazione è una entità ordinata e organizzata: le cose hanno un inizio e si dipanano lungo l’intreccio con una significazione che tende all’esattezza; i nodi di causa ed effetto sono necessari e giustificati (o giustificabili), e precipitano verso la conclusione: che è conclusa appunto, e non interrotta, perché si manifesta come chiusura – temporale, logica, fenomenica o simbolica – di quel che è stato cominciato. Nella narrazione l’inizio contiene già i semi della sua fine, e la fine è testimonianza dell’esserci stati di quegli stessi semi all’inizio: è accaduto perché poteva o doveva accadere. Nel suo procedere, e anche quando appare disordinata nella forma, una narrazione conserva coerenza.

L’architettura ordinata di Chernobyl viene costruita a partire da una prolessi: la conclusione della storia – il suicidio di Valerij Alekseevič Legasov – ci viene mostrata subito. A questo punto noi già intuiamo che la storia ha un centro, e che questo centro riposa su un atto specifico: l’uccisione di una persona per sua propria mano, quando la morte è nella normalità delle cose un evento improvviso e non programmato. È incoerente, così come è incoerente tutto ciò che viene prima – la vita. Qui invece la morte si ritrova progettista, punto di arrivo di un percorso orchestrato ad arte e per artificio, che il regista decide di narrare a partire dall’epilogo. Perché quell’uomo (ancora non sappiamo chi sia) ha deciso di impiccarsi? Continueremo a chiedercelo per tutte le cinque puntate e fino all’atto finale, il processo. La vicenda di Černobyl’, che nella realtà è priva di vero inizio e di vera fine, si riorganizza attorno alla storia di Legasov che in quanto protagonista, non più persona ma personaggio, ha una vita finzionale e perciò circoscritta; questa si estende entro due punti fissi e indubitabili – l’inizio e la fine del suo coinvolgimento nel disastro – e funge da testata d’angolo per la costruzione dell’intero edificio narrativo.

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  1. Dalla moltitudine al singolo

Il personaggio di Legasov non ha solo il compito di procurare una direzione; deve anche fornire unicità a una storia che sarebbe, in sé, un grumo disordinato di persone, ciascuna con la sua propria e disordinata esistenza. Tutto ciò è la Černobyl’ reale, ma non può essere la Chernobyl narrata: piomberemmo in una casualità di fatti ingovernabile, dunque per paradosso in-credibile. Ma non è solo questione di credibilità, bensì di coinvolgimento: una storia che parla solo di moltitudini non riesce a prenderci emotivamente, non la sentiamo parlare a noi e di noi, perché nella moltitudine non riusciamo a riconoscerci e collocarci. L’assembramento di soggetti concreti viene percepito come un astratto – la folla, informe e incolore – e ci è difficile costruire con degli astratti una relazione che superi una certa soglia di temperatura. Abbiamo bisogno di singole facce e singoli cuori nei quali specchiarci.

Ulana Khomyuk è stata inventata appositamente per Chernobyl e nella realtà non esiste. Gli autori hanno voluto fare un omaggio ai tanti fisici e ingegneri che collaborarono con Legasov nei mesi successivi all’incidente – Khomyuk ha un ruolo chiave nello scongiurare la catastrofe –, ma la verità è che senza Khomyuk questi tanti fisici e ingegneri in Chernobyl non sarebbero riusciti ad avere una presenza. In quanto moltitudine sarebbero stati una parte visibile ma non vista del meccanismo, perché nessuno di loro – uomo o donna, grasso o smilzo, biondo o bruno – si sarebbe fissato nella mente dello spettatore. Questo non vuol dire che la moltitudine non può essere rappresentata in narrazione, solo che la sua possibilità di essere emotivamente rilevante cresce nel momento in cui perde la sua natura polimorfa e policentrica per diventare un unicum. “Se guardo la massa, non farò mai niente”, diceva Madre Teresa. “Se guardo al singolo mi metto in azione”. Una credibilità tale da spingerci ad agire non si costruisce sulle fondamenta molli della generalizzazione.

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  1. Dall’astratto al concreto

Chernobyl, quarta puntata. I militari stanno facendo evacuare tutti i cittadini residenti a trenta chilometri dall’impianto. Un giovane soldato entra in una stalla, dove una vecchia contadina, curva sul secchio, sta mungendo una vacca. Si sentono gli spruzzi di latte contro il fondo ancora vuoto del secchio.

Il soldato dice: “È ora di andare. Mi hai sentito?”

La vecchia resta voltata. Tace.

“Questa è un’evacuazione, lo capisci? Devi venire con me”.

“Perché?”

“Perché me l’hanno detto e io adesso lo dico a te. Tutto il villaggio, tutti quanti. Non è sicuro qui, ci sono le radiazioni: hai capito?”

“Lo sai quanti anni ho?”

“Non lo so. Tanti”.

“Ottantadue. Ho vissuto qui tutta la mia vita. Proprio qui, in questa casa, in questo posto. Cosa vuoi che m’importi se è sicuro o no. […] Non sei il primo soldato a passare di qui con un fucile. Quando avevo dodici anni è arrivata la rivoluzione, gli uomini dello Zar. Poi i Bolscevichi. Ragazzi come te, che marciavano in riga. Mi dissero di andarmene: No. Poi c’è stato Stalin, con la sua carestia. L’Holodomor. I miei genitori morirono, due delle mie sorelle morirono. Al resto di noi dissero di andarsene: No. Poi è arrivata la guerra: giovani tedeschi, giovani russi, ancora soldati, ancora carestia, ancora morti. I miei fratelli non sono più tornati ma io sono ancora qui, non me ne sono andata, dopo tutto quello che ho visto. E dovrei andarmene ora, per via di qualcosa che neanche posso vedere? No”.

“È ora di andare” dice ancora il soldato.

La vecchia continua a mungere; allora il soldato estrae dalla fondina la pistola, gliela punta contro e ammazza la vacca.

Il terzo movimento punta a farci vedere le cose. A farcele toccare, odorare, gustare, esperire sensorialmente. La scena che ho trascritta lo rappresenta alla perfezione: E dovrei andarmene ora, per via di qualcosa che neanche posso vedere? equivale a: E dovrei credere a qualcosa con la quale in miei sensi non hanno avuto a che fare? E infatti il giovane soldato capisce e riconduce la minaccia al concreto ammazzando la vacca. Il cinema ha il vincolo di dover mostrare ciò che vuole rappresentare. Esistono i dialoghi, certo, che possono contenere una buona dose di astrazione e un pensiero speculativo intrigante e denso, ma abusarne in tal senso può essere rischioso per la tenuta del narrato. La scrittura ha più ampie possibilità ma è sempre bene tener conto che quanto più riusciamo a far vedere al lettore ciò che sta accadendo sulla pagina, tanto più riusciremo a portarlo all’interno del cerchio magico del gioco finzionale. Di Chernobyl è stato detto che è “sensazionalistica e ambigua”, e sarà vero: nella realtà, chi è vittima di sindrome da radiazione acuta non sanguina e le radiazioni non si trasmettono da persona a persona come fossero il virus del raffreddore. Ci sarà stato certo il desiderio di scioccare, alla base di queste specifiche scelte di Mazin, ma anche il bisogno del tutto legittimo di mostrare tangibilmente il livello tensivo delle relazioni con e fra i sopravvissuti. Come mettere altrimenti in scena il rapporto di devozione fra il vigile del fuoco e sua moglie incinta se non rendendo palpabile il sacrificio di lei che lo accudisce nonostante il divieto, i teli di plastica, la pelle che si scolla dalla carne e la faccia che collassa fino ad andarsene dal corpo?

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  1. Dall’invisibile al visto.

Ciò che è visto, è tale da un determinato punto di osservazione. E qui identifichiamo uno dei maggiori scostamenti tra realtà e finzione perché le storie che noi viviamo, o meglio le collezioni di eventi che attraversano la nostra vita, sono anche collezioni di molteplici punti di vista: le verità sono tante quante le persone che le enunciano, e se verità è un conformarsi a qualcosa di esistente e indubitabile, certo è che questa esistenza e questa indubitabilità si spostano come bersagli mobili in un tiro a volo. A volte ciò che ci circonda è così sgusciante e incomprensibile da essere quasi invisibile anche se lo vediamo, perché fatichiamo a organizzarlo. In una narrazione no. Può esserci una moltiplicazione dei punti di vista, o un indebolimento della forza veritativa di chi enuncia la realtà (interna al testo) come nel caso del narratore inattendibile; inoltre ogni personaggio può avere un punto di vista suo proprio. Ma anche le dinamiche contrastive sono organizzate in una struttura coerente. In Chernobyl il centro che tutto attrae e verso cui tutto precipita è il punto di vista di Legasov. Legasov è un personaggio tondo. È complesso e problematizzato e il suo arco di trasformazione, pur ben tracciato, conserva fino alla fine la sua ambiguità: noi non sappiamo se Legasov mentirà per proteggere se stesso o se dirà la verità. Non sappiamo se quel suicidio, che ci viene mostrato fin da subito, è prodotto dalla menzogna o dal suo contrario. Il punto di vista di Legasov è oscillante rispetto a Legasov stesso, ma non lo è rispetto al tutto della narrazione verso la quale agisce da perno.

Khomyuk invece è un personaggio piatto. Come dice Forster, può essere condensato in una sola frase. “Un grande vantaggio del personaggio piatto è che lo si riconosce subito: ogni volta che entra in scena viene identificato dall’occhio emotivo del lettore”. Le sue caratteristiche restano inalterabili perché nulla nella narrazione interviene a modificarle: sono di alleggerimento cognitivo per il lettore/spettatore e fondamentali nel gioco di scontri e conflitti con i personaggi tondi. I personaggi piatti hanno però un’altra funzione, a mio parere: alimentano il punto di vista senza introdurre complessità. Sono un antidoto alla frammentazione che ci rende il reale a volte invisibile.

Khomyuk può essere riassunta nella frase: è doveroso dire la verità. Non vediamo scostamenti in lei lungo tutta la narrazione che la facciano divergere da ciò. Khomyuk si precipita a Černobyl’ anziché fuggire perché è doveroso dire la verità. Intervista i superstiti ricoverati a Mosca, nonostante i rischi perché è doveroso dire la verità. Viene arrestata dal KGB ma persiste nelle sue indagini perché è doveroso dire la verità. E il suo ultimo colloquio privato con Legasov non mira che a questo: a convincerlo che è doveroso dire la verità.

Non ci viene detto niente altro di Khomyuk, e neppure ci viene fatto sospettare (come nel caso di Legasov), né ci vengono mostrate tutte le frizioni interiori degne di un personaggio tondo, ma il suo ruolo è fondamentale per far oscillare l’interiorità di Legasov. Nella realtà non esistono persone né relazioni simili, eppure il risultato ci appare tremendamente realistico. Penso che la verità di Khomyuk si avvicini molto al concetto greco di aletheia (ἀ–λήθεια), svelamento. Vero è tutto ciò che non sta nascosto, non è in ombra. Verità è ciò che s’impone come qualcosa che non può essere smentito, è la non smentibilità di ciò che è in luce. Su questo sforzo per portare alla luce si struttura una storia che, inventando, ossia combinando pezzi tratti dal reale, riesce a collocarsi rispetto ad esso un passo indietro e un passo in avanti, fornendo così al reale non già la sostanza ma un ideale perimetro – un’idea di mondo.

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E se volete un ancor più puntuale confronto tra finzione e realtà:

 

E di realismo e realtà parleremo nel nostro “Scritto ad arte”, il primo corso-laboratorio che fa uso delle arti figurative come strumento per immaginare, inventare e comporre un testo letterario. Comincia a febbraio 2020 e il bando sta qui.