Coca, Pepsi o Fanta? Come far uso ad arte dei marchi per rendere il testo più denso e credibile

di Valentina Durante.

Nel 1986, Jonathan Shelder e Melvin Manis, ricercatori all’Università del Michigan, condussero un esperimento per analizzare il valore veritativo dei dettagli in una storia. La cornice era la simulazione di un processo per l’affidamento di minore – un bambino di sette anni – a una fantomatica signora Johnson. I giurati, ignari del reale scopo della simulazione, vennero divisi in due gruppi e ricevettero ognuno un elenco con otto argomenti a favore e otto argomenti contro la signora Johnson. Gli argomenti erano identici per entrambi i gruppi, tranne per una piccola differenza: nel documento destinato al gruppo A, gli otto punti a favore contenevano alcuni dettagli in più, semplici notazioni di colore che non irrobustivano né attenuavano il tono positivo dell’affermazione. Ad esempio la frase: “La signora Johnson si preoccupa che il figlio si lavi i denti ogni sera prima di andare a dormire”, diventava: “La signora Johnson si preoccupa che il figlio si lavi i denti ogni sera prima di andare a dormire; il bambino usa uno spazzolino di Star Wars”. I risultati furono: una media di 4,3 a favore (su 10) nel gruppo B, che aveva letto gli otto punti nella versione “base”. E una media di 5,8 a favore nel gruppo A, quello con la versione “aumentata”. Shelder e Manis provarono a invertire i gruppi; provarono anche ad arricchire gli otto argomenti contro. I risultati non cambiarono: le versioni integrate di dettagli, per quanto irrilevanti, avevano il potere di spostare il giudizio dei giurati in un senso oppure nell’altro.

La lettura non è un processo passivo; leggendo, noi acquisiamo attraverso la vista dei segni arbitrari – le parole –, organizzate secondo un codice condiviso – la lingua. Ma per passare dal segno al significato noi, attivamente, operiamo una traduzione o meglio una re-invenzione: attingiamo dalla nostra esperienza i pezzi più adatti a costruire l’immagine corrispondente alla parola o alla frase che abbiamo letto. La lingua funziona dunque come un ponte che congiunge due esperienze, quella di scrive e quella di chi legge. L’autore, tramite un consapevole uso della lingua, fornisce gli strumenti atti a far sì che nella mente del lettore si riproduca un’immaginazione il più possibile aderente a quella che lo ha guidato lungo il processo di scrittura. E qui entra in gioco lo spazzolino di Star Wars: più accurati sono i punti di contatto fra queste due immaginazioni, più il lettore avrà l’impressione che ciò che gli viene raccontato faccia parte del mondo per come lui lo esperisce, e che sia accaduto realmente. L’aggiunta: “il bambino usa uno spazzolino di Star Wars” non ci dice che la signora Johnson è una buona madre. Però ci aiuta a vedere la scena. Vediamo lo spazzolino di Star Wars, dunque anche la signora Johnson e suo figlio: lei è qui, lo sta guardando mentre si lava i denti, perché lo spazzolino di Star Wars esiste, dunque esisterà anche la scena per come è stata descritta.

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La serie di spazzolini di Star Wars lanciata da Oral B negli Stati Uniti.

È interessante, però, che ad aggiungere tanta vividezza non sia un semplice aggettivo – lo spazzolino non è semplicemente giallo o trasparente o nuovo –, ma un nome commerciale (la serie di Star Wars ha dato vita nei decenni a colossali fenomeni di merchandising, dunque è a tutti gli effetti un marchio).

Ora: le narrazioni che si propongono un’istanza realistica, ossia che “rendono la vista il senso dominante attraverso il quale comprendiamo il mondo e ci poniamo in relazione con esso” (Peter Brooks), sono spesso invase da oggetti. Non può che essere così, perché le relazioni che compongono la nostra vita sono, fàteci caso, per lo più relazioni che riguardano le cose, prima che le persone o quel che soliamo definire natura. Va da sé che ogni sforzo di rappresentazione letteraria di questa vita debba dedicare agli oggetti dello spazio, e non poco. Brooks nota come l’attenzione per gli oggetti sia una costante nel romanzo realista ottocentesco – Balzac, Flaubert, Zola eccetera –, e questo va di pari passo con la nascita della “letteratura industriale” attraverso la diffusione di massa del giornalismo e il roman-feuilletton. Piano testuale e piano extra-testuale si rispecchiano l’uno nell’altro in una folle corsa verso una mercificazione dell’umano esistere.

Un letto di noce, senza cortine, ai piedi del quale si arricciava un brutto tappeto d’occasione; alle finestre, tende ingiallite dal fumo di un caminetto che non funzionava e da quello del sigaro; sul caminetto, una lampada da Carcel donata da Florine e sfuggita per il momento al Monte di Pietà; poi, un cassettone di mogano opaco, un tavolo carico di fogli con sopra due o tre penne scarruffate; libri, soltanto quelli portati la sera prima o il giorno stesso: questo il mobilio di quella camera priva di oggetti di valore, che offriva in cambio un’ignobile accozzaglia di brutti stivali sfondati in un angolo, di vecchi calzini ridotti a merletti; in un altro, sigari spiaccicati, fazzoletti sporchi, camicie in due volumi, cravatte in tre edizioni. Era insomma un bivacco letterario arredato con cianfrusaglie, e della nudità più bizzarra che si possa immaginare”.

Questo passo tratto da Illusioni perdute di Honoré de Balzac (citato ne Lo sguardo realista di Brooks) è fitto di cose. Sono tutte cianfrusaglie (choses négatives), ma eccole lì: un letto, un tappeto, tende alle finestre, una lampada, un cassettone, un tavolo con penne e libri. E poi capi di vestiario: stivali, calzini, fazzoletti, camicie, cravatte e dei sigari. Si tratta di oggetti generici, che Balzac rende significativi attraverso l’aggettivazione – il tappeto è brutto, le tende sono ingiallite, le penne scarruffate –, per darci modo di vederli e di associarvi un determinato valore morale: quello di una “vita senza riposo e senza dignità”, come avrà modo di dire in seguito. L’unico oggetto che si stacca dalla genericità è la lampe Carcel, che è uno specifico tipo di lampada inventato dall’orologiaio francese Bertrand-Guillaume Carcel, molto diffuso nelle case francesi dell’Ottocento. (una curiosità: in italiano la lampada Carcel viene chiamata anche “carsella”. È probabilmente un regionalismo, in uso al Sud. Troviamo una carsella nel primo capitolo del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa: “Ricoperta da una rattoppata tovaglia finissima, essa splendeva sotto la luce di una potente “carsella” precariamente appesa sotto la “ninfa”, sotto il lampadario di Murano”).

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Esempi di lampade Carcel. Quella a sinistra è una carsella napoletana.

Come sarebbe la stanza descritta da Balzac se dovessimo rappresentarcela oggi? Che differenza ci sarebbe tra quegli oggetti e i nostri oggetti? La foggia, certo, e il materiale, e probabilmente anche i colori, perché gli odierni colori di sintesi hanno una resa diversa dalle tinte naturali di un tempo. Ma la novità più evidente consisterebbe nella marca: tutti gli oggetti della stanza balzachiana, la camera “sporca e triste insieme” di Lousteau, sarebbero oggi prodotti da un’azienda e avrebbero pertanto un nome commerciale. Vi sembra un dettaglio da poco? Forse no, adesso che conoscete la storia della signora Johnson e dello spazzolino di Star Wars.

La nostra è una vita brandizzata. Nasciamo indossando pannolini Pampers e veniamo seppelliti dentro casse da morto Taffo. Salvo nicchie devote a una orgogliosa autoproduzione, tutti gli oggetti che ci permettono di fare la vita che facciamo sono progettati, prodotti e distribuiti da un’azienda che li battezza. Come regolarsi quando questa vita viene ricreata attraverso la scrittura, con una finzione che ambisce però a generare un’illusione di realtà?

Vi propongo due brani tratti da due grandi opere della narrativa italiana contemporanea. Si tratta di un racconto e di un romanzo, che nel passo citato contengono un marchio e un minuscolo errore.

Il primo è Super Nivem, e appartiene alla raccolta Il male naturale di Giulio Mozzi.

Miro si prendeva facilmente le bronchitine e così per tutto un inverno, nell’Istituto in città, andai avanti a fargli il massaggio serale sul petto con il Vicks Vaporub; era diventato abbastanza evidente, a un certo punto, a me come (credo) a lui, che il massaggio con il Vicks Vaporub era sì opportuno se non necessario per la prevenzione e cura della bronchite, ma soprattutto era un piacere che ci prendevamo. A volte Miro pretendeva di essere lui a massaggiare me, che pure non me la cavavo male quanto a bronchiti, e naturalmente così facevamo, e il piacere che provavo mentre Miro faceva assorbire il Vicks Vaporub e mi massaggiava il petto con le sue manine piccole e delicate è un piacere che è diventato, per la parte successiva della mia vita, una sorta di piacere modello. Qualunque piacere io incontri, lo confronto con quello. Mi stendevo sul letto, schiena in giù, Miro si metteva a cavalcioni della mia pancia, mi spremeva il Vicks Vaporub sullo sterno e poi, a mani affiancate, cominciava a massaggiare”.

In Super Nivem compare qua e là qualche marchio, con un effetto sempre naturale e realistico. Prima del Vicks Vaporub ci imbattiamo in una Renault 4, nel dentifricio Mentadent-P e in Capitan Findus. Eppure leggendo il racconto per la prima volta, la visione che si andava componendo in modo fluido nella mia testa qui si è arrestata di botto: uno strappo nel tessuto immaginativo, alla comparsa di quel: “mi spremeva il Vicks Vaporub”. Il Vicks Vaporub, prodotto di punta della Vicks e una costante, credo, negli inverni di tutti i bambini, è venduto in vasetto: si affondano le dita nell’unguento mentolato e lentamente si plana sulla schiena o sul petto – questo il rituale.

È bastato un dettaglio minimo, un semplice verbo –spremere anziché stendere –, per creare frizione: perché? Perché il marchio è un descrittore estremamente preciso, e se le parole non lo assecondano in modo congruente la credibilità della visione si sfascia. È lo stesso straniamento che si produce difronte alle opere dell’artista egiziano Ahmed Morshedi:

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Il secondo estratto viene da I quindicimila passi di Vitaliano Trevisan.

Da casa allo studio Strazzabosco, pensavo, saranno più o meno quindicimila passi, dunque scarpe con suola di gomma. Per un tragitto così lungo delle scarpe con la suola in cuoio sono impensabili, molto meglio quelle con la suola di gomma. Scelsi infatti i miei vecchi anfibi militari con la suola in vibran marchiata Pirelli 1968, le scarpe più comode in assoluto tra le decine che posseggo. Per di più fatte nel 1968, pensavo indeciso se indossare una giacca blu o nera. Misi la giacca blu, mi levai la giacca blu. Misi la giacca nera, mi levai la giacca nera. Rimisi la giacca blu, ma subito la rilevai per indossare il giubbotto di cuoio che papà aveva riportato a casa dalla Russia, così mia sorella, ed era il suo preferito”.

Qui l’errore sta in quel “in vibran”. Scritto così, sembra trattarsi di un materiale. E invece Vibram è il marchio di un’azienda di Albizzate che ha introdotto, prima sul mercato, la scarpa da montagna con suola in gomma vulcanizzata e battistrada a carrarmato. Anche Pirelli produceva suole in gomma e da ben più tempo; le pubblicizzava attraverso splendidi manifesti, come questi disegnati da Alan Fletcher e Bruno Munari.

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A sx: Alan Fletcher, Bozzetto per una pubblicità di pneumatici Pirelli, 1959; a dx: Bruno Munari, Pubblicità della suola Coria, 1953.

La prima suola Vibram nasce nel 1937 dalla collaborazione tra Leopoldo Pirelli e Vitale Bramani, fondatore dell’azienda. È plausibile che negli anni Sessanta i due marchi comparissero insieme in qualche prodotto, ma vibram (e men che meno vibran) non è mai stato un materiale. Pure in questo caso si tratta di un’inezia, una delle tante incongruenze che funestano anche i libri più curati perché siamo pur sempre esseri umani e abbiamo dei limiti: non si può essere ferrati su tutto. Io sono portata a notare questo genere di imperfezioni a causa del lavoro che faccio. Diciamo che in me questo tipo di sguardo è sensibilissimo, e se segnalo le due sviste qui non è per pedanteria, ma per dar conto di un fatto interessante e utile. In Super Nivem, il Vicks Vaporub spremuto produce un inciampo momentaneo: scollinata la scena, l’immaginazione si ripristina senza che sia intervenuta alcuna variazione nei personaggi e nella relazione che esiste fra loro. Nel caso de I quindicimila passi la faccenda è diversa. Trevisan destina un buon numero di righe alla descrizione dell’abbigliamento di Thomas. Prima che entrino in scena gli scarponi, il narratore fa una lunga digressione sul giubbotto ungherese: un giubbotto di cuoio imbottito di pelo bianco che il padre aveva sottratto a un soldato morto durante la ritirata di Russia. Giubbotto e scarponi compongono la divisa di Thomas, sono l’armatura che il cavaliere indossa, in una vestizione quasi rituale, intessuta di meditazioni e ricordi, prima di intraprendere il viaggio. Non basta: giubbotto di pelle e scarponi militari stanno alla base dei codici vestimentari di molte sottoculture e controculture del Novecento: Bikers, Rockers, Headbangers, Skinheads… È un vestire antagonista e Thomas è un antagonista. Ecco perché quel “in vibran” ha scentrato la mia immaginazione quel tanto che bastava a rendermi Thomas un po’ meno credibile.  La scentratura non si è ricollocata, ma è proseguita anche nelle pagine successive e io ho camminato con Thomas, essendo Thomas, guidata dallo sguardo di Trevisan che è uno sguardo di ossessiva, dunque fortissima penetrazione sul mondo, con una leggera e persistente sfocatura.

I marchi non sono semplici descrittori, ma potenti pacchetti di significati. Adesso possiamo dire con certezza che, se il figlio della signora Johnson si fosse lavato i denti con uno spazzolino giallo o trasparente o nuovo, non sarebbe stata proprio la stessa cosa. Star Wars è un concentrato di ramificazioni immaginali possibili. I lettori degli otto argomenti a favore non hanno visto solo il figlio della signora Johnson lavarsi i denti, li hanno anche visti, madre e figlio, al cinema a emozionarsi per la storia di Luke Skywalker, li hanno visti a un negozio di giocattoli perché il piccolo voleva a tutti i costi la spada laser per sconfiggere Darth Vader e poi li hanno visti in cucina, mentre la madre preparava la cena e il figlio mimava il duello con la lama della spada puntata al frigo. Uno spazzolino giallo non avrebbe saputo fare tutto ciò.

Vi propongo un ultimo brano, di uno scrittore che riesce a produrre, con pochi tratti, dei personaggi credibilissimi, e lo fa anche attraverso un consapevole uso dei marchi. Il romanzo è Effetto Domino, di Romolo Bugaro:

Baessato è affollato come al solito. Gente seduta sui divanetti di vimini allineati sotto il portico, gente raccolta in gruppi più o meno rumorosi davanti alle vetrate illuminate, gente appoggiata agli sportelli delle Bmw e delle Evoque parcheggiate in doppia fila lungo il marciapiede. Giovani donne di trenta o trentacinque anni, con gonne elasticizzate e unghie color grafite e capelli ramati, sorridenti e fulminee e circondate dal loro stesso riverbero. Uomini di trenta o quaranta o cinquant’anni vestiti con Jeckerson a sigaretta, camicie Ralph Lauren, scarpe Philippe Model, abituati a frasi standard, sorrisi standard, da ripetere un numero infinito di volte nel corso della serata. C’è anche qualche sessantenne abbronzato e sorridente come gli altri, più degli altri, deciso a restare sempre al vento oppure ritornarci dopo una pausa più o meno lunga di vita senza scosse. Quel bar è il regno degli ultimi scapoli e delle eterne ragazze, un fortino nel cuore della grande pianura”.

Provate ad accostare questa carrellata in interno con la stanza descritta da Balzac e vedrete che non c’è una grossa differenza. Nel passo di Balzac c’erano solo oggetti a dis-animare l’ambiente, mentre qui compaiono anche persone. Ma l’effetto è tutto sommato identico perché i marchi – Bmw, Evoque, Jeckerson, Ralph Lauren, Philippe Model, tutti nomi di fascia alta – applicati alle persone, o meglio ai corpi, finiscono per oggettificarli. Corpi e oggetti stanno in questo contenitore mercificato dove tutto sembra simile a tutto: la Bmw al sorriso – standard, come è standard il prodotto industriale –, la vetrata illuminata alle giovani donne riverberanti, il sessantenne deciso a restare sempre al vento come fende il vento un’auto, una decappottabile.

Riassumendo: i marchi sono in mezzo a noi. Sono vita. Se vogliamo rappresentare questa vita chiamare le cose con il loro nome, che oggi è quasi sempre anche un nome commerciale, può rinforzare l’illusione di realtà che dal testo promana. Ma i marchi sono anche evocativi, in quanto pacchetti di significati e scaturigine di connessioni. Sono strumenti immaginativi densi e potenti, da usare saggiamente e a nostro vantaggio: teniamone conto.

 

E di realismo, credibilità e dettagli parleremo nel nostro “Scritto ad arte”, il primo corso-laboratorio che fa uso delle arti figurative come strumento per immaginare, inventare e comporre un testo letterario. Comincia a febbraio 2020 e il bando sta qui.

 

Nell’immagine: Brillo Box (3 cents off) di Andy Warhol (1964).