Teoria e pratica del salutare, quando si scrive a una persona sconosciuta tipo un editor o un agente letterario

di Giulio Mozzi

1. Salve non si usa mai. Cito dal dizionario Treccani: “Salve. Formula di saluto (propr., imperat. del verbo lat. salvere «stare bene, in buona salute»), che si rivolge a persona o a luogo; può avere tono solenne, nell’uso letter. e poet.: Salve, Umbria verde, e tu del puro fonte Nume Clitumno! (Carducci); oppure, tra persone che si incontrano, tono amichevole e confidenziale: salve! come va?“. Se scrivete a una persona sconosciuta (a es. se siete un aspirante scrittore sconosciuto, e scrivete a un editore, a un editor, o a un agente, o a me, ec.) è chiaro che una formula “amichevole e confidenziale” non può andar bene: viene percepita dal vostro destinatario come un abuso, una pretesa di confidenza e di amicizia quando né questa né quella ci sono. (Magari, tra vent’anni, quando ormai sarete diventati amiconi, vi saluterete con formule del tipo: Salve, vecchio porco!, o Salve, putrida fogna!, ec.).
Salutare con un Salve o un Salve!, dunque, è un errore doppio: è un errore di comportamento (più o meno come se uno sconosciuto, al momento delle presentazioni, anziché tendervi la mano vi desse una pacca sulla spalla) ed è un errore, o almeno un’impropriatezza, di lingua: il contenuto (un saluto tra sconosciuti) non corrisponde allo stile (confidenziale) (l’appropriatezza è “in linguistica testuale, la corrispondenza tra i contenuti e lo stile di un testo”, Diz. Garzanti di linguistica).
Se convenga presentarsi come scrittori mettendo un errore di lingua già nella prima parola della lettera, potete immaginarlo.

2. Ehilà!: peggio che andar di notte, per le medesime e più gravi ragioni (i curiosi consultino il Treccani). Tra vent’anni, quando sarete amici e in confidenza, Ehilà panzone! potrà andare benissimo; ora no.
Ricordate sempre che l’eccesso di confidenza è particolarmente rischioso quando ci si rivolga a una persona dell’altro sesso.

3. Caro. Si può usare in due situazioni diverse:
[a] quando non conoscete il vostro destinatario, ma appartenete entrambi al medesimo ambiente professionale, occupate posizioni (ciascuno nella propria organizzazione) gerarchicamente simili, e potete presumere che il destinatario sappia chi siete voi più o meno come voi sapete chi è lui. Vi sono peraltro casi nei quali, più che di “posizione gerarchica”, si potrebbe parlare di “valore”: a es. uno scrittore di un certo valore economico o artistico (o entrambi) può usare il caro se si rivolge all’editor di una casa editrice che non è quella che gli pubblica i libri; ec.
[b] quando il mittente effettivamente abbia “cara” la persona alla quale si rivolge, pur in assenza di una conoscenza diretta. Può succedere, nell’ambito letterario. L’autore del quale si sono lette le opere può essere “caro” al lettore. Ma in questo caso, ovviamente, la cosa va spiegata: senza adulazione, senza melensaggini, con sincerità (e in poche parole). (Es.: “Caro Mozzi. Mi permetto di scrivere ‘caro’ perché effettivamente lei mi è ‘caro’, anche se non ci conosciamo. La leggo, la seguo – come si dice oggi -, e nel momento in cui mi sono accinto a scriverle mi sono sentito con lei in una intimità imbarazzante, perché a senso unico. Non nascondendo che lei mi è ‘caro’ tento di superare questo imbarazzo. Naturalmente non c’è nessuna ragione, almeno al momento, perché io sia ‘caro’ a lei” – questa è già un pochettino prolissa).

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4. Gentile signor X, Gentile signora Y. Mi è sempre parso curioso, quest’uso del “gentile” (e ancor più il “gentilmente”: “Mi potrebbe gentilmente favorire un documento”, dirà questa sera il portiere della pensione dove dormirò, e io non potrò fare a meno di pensare, come ogni volta: e se mi avesse chiesto di favorirgli brutalmente un documento?), e tuttavia è d’uso: quindi non fa male. Le sfumature poi sono tante: Gentile signor Mozzi, Gentile Mozzi, Gentile Giulio, ec., la prima più formale, la seconda un po’ meno, la terza appena a un passo dal caro [b]. L’informalità ha bisogno di trovare una ragione nella lettera, la formalità no. Quanto agli Egregio, al Distinto, allo Stimato, ec., sono un po’ fuori moda, e talvolta suonano un po’ buffi: ma anche loro non possono far male. Al massimo tradiscono in chi scrive un certo timore reverenziale (che il destinatario, nella sua risposta, deciderà se narcisisticamente coltivare o scherzosamente liquidare) o un certo sussiego (che può essere figlio dell’imbarazzo come della vanità: si decida caso per caso).
Chiarissimo è in vigore ancora solo, mi pare, tra docenti universitari: Chiarissimo professore. Carissimo si usava tra democristiani, ma ormai di democristiani non ce n’è più al mondo che uno, e sono io: quindi posso darmi del Carissimo solo allo specchio. Sempre tra docenti universitari il Carissimo si usa ancora talvolta, ma solo se il contenuto della lettera è velenoso.

5. Ciao. Può sostituire il caro [a], soprattutto se la lettera che segue è lavorativa e spiccia. Sennò, solo tra amici.

6. Titoli di studio e professionali. Se li usate, scriveteli per esteso (Gentile prof. Calpurnio no, Gentile professor Calpurnio sì). Badate che siano corretti: io, per esempio, non sono né dottore né professore. Parole come editor, agente, ec., non sono dei titoli: Egregio agente Leopoldo Scortegagna è una cosa che non si può leggere, e non a causa delle parole “Leopoldo Scortegagna”.

7. Il lei, il tu. Viviamo in un mondo dove ormai l’informalità domina. Ma la vecchia regola secondo cui è il più anziano, o il più alto di grado, o simili, a “concedere” l’uso del tu è per molti ancora valida. Peraltro, bisogna sempre ricordare che l’informalità non cancella i veri rapporti gerarchici o di potere.
Non è insensato usare il lei in una lettera anche con chi conoscete già, per modo di dire, attraverso Facebook, e al quale in Facebook (nei commenti ec.) vi rivolgete con il tu. In spiaggia si sta tutti in mutande (qualcuno anche senza) e non c’è problema, in casa altrui ci si reca vestiti decentemente (e soprattutto, docciati).

8. Nome, cognome. L’uso del nome completo nel saluto iniziale è in genere gradito. Il solo cognome è più secco: è più facile che sia usato dal superiore che si rivolge all’inferiore (Fantocci!). Quindi siate prudenti. Nelle comunicazioni informali e rispettose l’uso del solo nome abbinato al lei è sempre più diffuso: ma anche qui si richiede un minimo di prudenza. Non al primo approccio, ecco.

9. Il vecchio e caro Buongiorno non fa mai male, e fa spesso bene. Io preferisco il Buondì, che ha un che di montanaro e svegliarino (non ne ho le prove, ma a orecchio mi pare effettivamente più diffuso in Trentino che altrove), e può essere usato anche tra amici, al posto del Ciao. Però nelle lettere più prudenti, a persone del tutto sconosciute, mi affido al Buongiorno.
Il Buonasera, vivissimo a voce, va usato con attenzione: mentre il Buongiorno epistolare è generico, e può essere usato sia che scriviate alle sei del mattino sia che scriviate alle sei della sera, il Buonasera epistolare rappresenta più una condizione soggettiva dello scrivente ed è quindi un pochino, sia pur solo un pochino, più confidenziale (“Buonasera, Mozzi. Ho messo a letto il piccolo, ho fatto partire la lavapiatti, ho steso la roba lavata sul terrazzino, e finalmente mi siedo qui, a cercar di trovare il coraggio di scriverle”: ecco un esordio che tenta di trovare l’equilibrio tra il desiderio di un colloquio informale, autentico, e un non nascosto imbarazzo; che poi una persona debba “trovare il coraggio” per scrivermi, non so se dipenda più dalla mia fama di burbero – che coltivo accuratamente – o dal fatto che, c’è poco da dire, quando si lavora tanto a un’opera, e solitariamente, e magari con molta fatica fisica, c’è un certo costo emotivo nel rivolgersi a un estraneo).

10. Non ho certo esaurita tutta la casistica possibile, e magari ho scritto qualche sciocchezza. Ma – da persona che riceve e scrive dozzine di comunicazioni scritte al giorno, e almeno tre o quattro vere e proprie lettere – mi bastava mettere la pulce nell’orecchio. Troppe volte, come il buon giorno (o il cattivo) si vede dal mattino, il puro e semplice saluto mi mette in sospetto. Pensateci un momento: tra Salve, papa! e Gentile signor Bergoglio, credete che la prima formula sarebbe la più gradita?

[E, tanto per concludere: sapreste mettere nella scelta di ogni parola di un qualsiasi testo da voi scritto un’attenzione simile a quella che qui vi propongo?].

3 pensieri riguardo “Teoria e pratica del salutare, quando si scrive a una persona sconosciuta tipo un editor o un agente letterario

  1. Fosse così semplice… Non solo il saluto da utilizzare dipende dal contesto (se posso accettare l’informale “ciao” nei social e nel blog, non lo ammetto proprio in ambito professionale da parte di sconosciuti che mi scrivono per la prima volta, gli rispondo categoricamente con un “buongiorno” e dando del “lei”, anche se più giovani di me), ma dipende anche dalla personalità dall’altra parte. C’è chi ci tiene molto al titolo, guai a dimenticarsene! Li preferiscono pure sbagliati, per eccesso ovviamente, piuttosto che omessi. Un po’ come il “buon appetito” a tavola, assolutamente vietato dal galateo contemporaneo, eppure mi ritrovo a dover ringraziare continuamente per l’invito.
    …comunque per sicurezza ho verificato l’unica mail inviata: inizia con “Buongiorno” e, con molta fortuna, ho evitato sia formalismi che intimità. 🙂

  2. Quando devo scrivere a qualcuno che non conosco trovo sempre difficile scegliere le prime tre parole. Di solito opto per “Gentile Nome Cognome”, lo trovo neutro, immagino l’occhio di chi legge scorrere senza attrito e andare a capo. Se invece ho solo un indirizzo mail generico, inizio con “Buongiorno” o “Gentilissimi”, ma mi sento sempre un po’ stupida in entrambi i casi. Grazie per le riflessioni!

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