Lo sguardo dal vero (prima parte)

di Demetrio Paolin

Faccio una confessione: questo pezzo doveva essere una riflessione sulla novella di Balzac Il capolavoro sconosciuto e la relazione che intrattiene con il romanzo L’opera di Zola, poi mentre rileggevo il testo di Balzac ho notato una spia linguistica particolare, ovvero le occorrenze della parola “guardare” (del suo interno specchio semantico) e di come questa densità aumenti nel momento in cui i tre protagonisti, tutti e tre pittori, riflettono sulla propria arte. Verso la fine della novella troviamo questo dialogo:

“Vedete qualcosa, voi?” domandò Poussin a Probus.
“No… E voi?”
“Niente”.

Ho sentito quindi il bisogno di fare un passo indietro prima di parlare di questi due libri e di ragionare con voi sul termine “guardare”, perché spesso in questi nostri articoli con i quali ci avviciniamo al corso Scritto ad arte parliamo di sguardo, vista, punto di vista, osservazione, osservare e mi sono reso conto che sia necessario forse fare una premessa, che come sempre chiarirà il perché del legame, che si legge nel titolo, tra “sguardo” e “vero”.

Partiamo con una serie di domande.

Quando il paradigma del conoscere passa dalla “visione” allo “sguardo”? Quando si passa dall’oscuro “Io sento” alla chiarezza dell’“Io vedo”? Quando, in poche parole, il guardare è diventato il modo abituale di conoscere le cose? Perché ovviamente esiste una Storia dello sguardo (Mark Cousin, Il Saggiatore) che ci fa comprendere come quello che noi per noi è un dato normale: io conosco una cosa perché la vedo, non era nei tempi passati così certa. Ad esempio prima del Seicento lo sguardo non era il luogo deputato alla conoscenza; il possesso di una materia, il sapere, la conoscenza erano associati all’assimilazione tramite bocca, al cibarsi, e da qui le metafore come il cibo degli angeli o il banchetto della sapienza etc etc etc. Per dirla con Ezio Raimondi (Il romanzo senza idillio, Einaudi): “il mito della digestione si ricongiunge alla libido dell’alchimista”. C’è una terzina di Dante, in Par X, 25-27, che racconta perfettamente questo atteggiamento:

Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba;
ché a sé torce tutta la mia cura
quella materia ond’ io son fatto scriba

L’occorrenza in rima tra ciba/scriba chiarisce questa fenomenologia della conoscenza come digestione, quindi tra conoscenza e nutrimento, ma questa è già preparata dalla rima al verso 23: preliba. Preliba/ciba/scriba: tre vocaboli che dicono bene che per molto tempo la verità, il sapere, la conoscenza è passata dal nostro apparato digerente più che dal nostro apparato visivo.

Non è un caso che il vedere, almeno fino alla fine del 600, è associato più all’idea di visione, che è più legato all’idea di credere, di fede. Basti l’esempio dell’episodio evangelico, raccontato da Giovanni, e della corsa con Pietro al sepolcro vuoto nella domenica di Pasqua. Giovanni arriva e l’evangelista dice: “Vide e credette”.

La rottura di questo modo di intendere la conoscenza avviene tra la fine del ‘500 e l’inizio del ‘600 e se proprio vogliamo trovare un nome che rompe questa episteme conoscitiva allora il nome è quello di Galileo Galilei. Lo sguardo moderno, che noi tutt’oggi abbiamo sul mondo sensibile degli oggetti e delle cose, discende da lui e da quella rivoluzione scientifica, che fu anche una rivoluzione del linguaggio e dei modi di espressione che avvenne durante il 600 europeo.

Leggiamo questo brano

In primo luogo diremo dell’emisfero della Luna che è volto verso di noi. Per maggior chiarezza divido l’emisfero in due parti, più chiara l’una, più scura l’altra: la più chiara sembra circondare e riempire tutto l’emisfero, la più scura invece offusca come nube la faccia stessa e la fa apparire cosparsa di macchie. Queste macchie alquanto scure e abbastanza ampie, ad ognuno visibili, furono scorte in ogni tempo; e perciò le chiameremo grandi o antiche, a differenza di altre macchie minori per ampiezza ma pure così frequenti da coprire l’intera superficie lunare, soprattutto la parte più luminosa: e queste non furono viste da altri prima di noi. Da osservazioni più volte ripetute di tali macchie fummo tratti alla convinzione che la superficie della Luna non è levigata, uniforme ed esattamente sferica, come gran numero di filosofi credette di essa e degli altri corpi celesti, ma ineguale, scabra e con molte cavità e sporgenze, non diversamente dalla faccia della Terra, variata da catene di monti e profonde valli.

Il brano è tratto dal Sidereus Nuncius di Galileo. Cosa ci colpisce di questo testo? Paradossalmente per noi questa descrizione pare banale. Le immagini che Galileo suscita con le sue parole sono fruste, chi di noi non ha visto un’immagine dei crateri, delle pianure e delle gibbosità della superficie lunare. Se ci soffermiamo con un più attenzione, però, a queste parole, non possiamo dimenticare che esse sono le prime che descrivono la luna vista da un occhio umano nella sua interezza e complessità. Per la prima volta quindi uomo posa il suo sguardo sul satellite della terra: da qui in poi è impossibile pensare all’atto di guardare senza unirlo all’atto di conoscere.

Che cosa guarda Galileo? Che cosa descrive Galileo mentre guarda? Potremmo dire che Galileo guarda il reale, e non credo che sia simbolicamente un caso che il primo oggetto “visto” sia la luna, che è un luogo eminentemente letterario e fantastico; c’è qualcosa di programmatico; lo sguardo segna una drastica riduzione del fantastico: la luna non è più il luogo dove si trova il senno di Orlando, non è il luogo mitico dei dialoghi di Luciano Samosata, ma è un semplice satellite, quasi banale con le sue colline,  valli. La prosa di Galileo non fa nulla per rendercele più invitanti e belle; la neutralità dello stile è voluta a segnare una crasi con tutti i modelli espressivi precedenti.

Il tema che viene sotteso da Galileo e dalle sue scelte è possibile descrivere la realtà così come è? E possibile che la scrittura della “cosa” e lo sguardo sulla “cosa” siano perfettamente coincidenti? La relazione tra scrittura e sguardo sta nell’esperimento, cioè sul tentativo di riprodurre la realtà e per dirla con Raimondi

A parte gli esiti stilistici, […], la descrizione è divenuta funzionale e conoscitiva, perché alla lettera si presenta come un esercizio o diciamo meglio, per adottare la terminologia degli scienziati, un esperimento.

Mi pare che l’entrata in scena dello sguardo segni una particolare novità, sancisce se vogliamo l’impossibilità di conoscere la realtà (il mangiarla), ma ci consente la possibilità di produrre una sorta di copia conforme o molto simile alla realtà. Ed è proprio questo il tema fondamentale del racconto di Balzac su cui ci soffermeremo nella prossima puntata.

[“Scritto ad arte”, organizzato dalla Bottega di narrazione, è un corso-laboratorio che fa uso delle arti figurative come strumento per immaginare, inventare e comporre un testo letterario. Si terrà a Milano, fra la Pinacoteca di Brera e la sede della Bottega di via Tenca 7, per due fine settimana: 22-23 febbraio e 4-5 aprile 2020. Sarà condotto da Demetrio Paolin e Valentina Durante. Per saperne di più].

L’immagine è un fotogramma del film Viaggio nella Luna, di Georges Méliès.