di Simone Salomoni
docente della Bottega di narrazione
Nelle prima pagine de Lo scrittore fantasma, il libro in cui Philip Roth fa entrare in scena il suo alter ego Nathan Zuckerman – un po’ perché non si bastava più, ma soprattutto, secondo me, perché era arrivato a un punto dal quale poteva vedere sia la giovane promessa che era stato sia il venerabile maestro che sarebbe diventato – E.I. Lonoff, lo scrittore che Zuckerman tanto ammira, pronuncia queste parole:
“Io prendo le frasi e le giro. Questa è la mia vita. Scrivo un frase e la giro. Poi la guardo e la giro di nuovo. Poi vado a pranzo. Poi torno qui e scrivo un’altra frase. Poi prendo il tè e giro la frase nuova. Poi rileggo le due frasi e le giro tutt’e due. Poi mi sdraio sul sofà e rifletto. Poi mi alzo e le cancello e ricomincio da capo.”
Molto romantico.
Si tratta di una citazione assai nota. Ho l’impressione che salti sempre fuori quando si vuole parlare di Roth e si è letto poco Roth o quando si vuole parlare di scrittura ma si ha ancora poca dimestichezza con la scrittura e allora si tenta di mettere in mostra il proprio approccio alla scrittura, un approccio che deve necessariamente portare con sé le stimmate di una assoluta e totale – attenzione: assoluta e totale – dedizione alla scrittura, come se la totale dedizione all’arte fosse più nobile e sensata della totale dedizione alla vita.
Sono invece un po’ meno note e seducenti e romantiche, e per questo più interessanti, le parole che Hope, la moglie di Lonoff, rivolge al marito scrittore e alla sua giovane amante nelle ultime pagine del libro:
“L’ho vista carezzare ogni foglio di ogni stesura di ogni racconto. Lei crede che con lei questo diventerà il tempio dell’arte. Oh, come no! Lascia che provi ad accontentarti, Manny. Falle fare da sfondo ai tuoi pensieri per trentacinque anni. Che veda come sei nobile ed eroico alla ventisettesima stesura. […] Chiedigli, a letto: «Cosa c’è, caro, che succede?» Ma ovviamente tu sai fin troppo bene che succede… sai perché non ti abbraccia, perché non sa nemmeno che sei lì. La cinquantesima stesura!”
Queste parole sono forse un po’ meno note e soprattutto, molto meno seducenti e romantiche. Con esse Roth inchioda sé stesso e il lettore (e se il lettore è anche uno scrittore, lo inchioda e lo flagella e lo trafigge e lo disseta con l’aceto) ricordandogli – e soprattutto ricordandosi – quanto sia difficile indossare più cappelli in una vita, quanto il sacrificio artistico – il sacrificio assoluto e totale – comporti l’abbandono della grazia a vantaggio della gloria, il matrimonio con Tolstoj e il martirio di ogni Hope.

Questa frase dello scrittore a me ha sempre rincuorato, perché quello che scrivo mi sembra sempre storto e insignificante, tranne rare epifanie che però soffrono di solitudine come la particella dell’acqua Lete.