Dieci riflessioni sperabilmente utili per dare un buon titolo al vostro romanzo

Bottega di narrazione, Scrittura creativa, Creative writing, Dare un titolo a un romanzo,

di Giulio Mozzi
direttore della Bottega di narrazione

1. Non esiste una scienza esatta dei titoli. E, tutto sommato, non esiste neanche un grandissimo lavoro storico-critico sui titoli di romanzo. Non che non si trovi bibliografia; ma è piuttosto sparuta. Imperdibile, ovviamente, lo splendido (e assai divertente) saggio di Gérard Genette Soglie. I dintorni del testo. Illuminante il saggio di Franco Moretti Stile srl. Riflessioni su settemila titoli, incluso (pp. 133-157) in A una certa distanza. Leggere i testi letterari nel nuovo millennio di Franco Moretti. Mentre l’approccio di Genette (che dedica ai titoli il terzo capitolo, una quarantina di pagine) è sostanzialmente descrittivo e tassonomico (come si conviene a una disciplina, la titologia, ai suoi inizi), Moretti suggerisce interessanti interpretazioni spiccatamente sociologiche: nel suo saggio il romanzo è considerato come un ogetto che si adopera, che deve farsi riconoscere ed essere riconosciuto, che deve farsi collocare in un mercato, che deve essere catalogato (es. dalle biblioteche) e così via.

2. Quell’opera che oggi chiamiamo sbrigativamente Robinson Crusoe s’intitolava all’origine The Life and Strange Surprizing Adventures of Robinson Crusoe, Of York, Mariner: Who lived Eight and Twenty Years, all alone in an un-inhabited Island on the Coast of America, near the Mouth of the Great River of Oroonoque; Having been cast on Shore by Shipwreck, wherein all the Men perished but himself. With An Account how he was at last as strangely deliver’d by Pyrates. E molti di voi avranno presenti i titoli-sommario che adornano il frontespizio di molti libri antichi. Ora, bisogna considerare che fino a una certa epoca i libri venivano venduti per lo più non rilegati. Il cliente andava in libreria e sceglieva, insieme al libro, la rilegatura: più o meno costosa, più o meno lussuosa. Oggi noi siamo abituati a entrare in libreria e sfogliare un libro: ancora a metà Ottocento questo non era sempre possibile. Ovviamente i libri più economici, quelli da grande vendita, potevano essere offerti già rilegati, con rilegature essenziali ed economiche; non era così per i libri più impegnativi. Un titolo-sommario, nel quale si offrissero quante più informazioni possibile sul contenuto di quel pacco di fogli, aveva tutto il suo senso. Moretti, nel saggio citato, fa presente anche l’incremento di recensioni di romanzi nelle riviste: nel momento in cui il cliente va a cercare il romanzo in libreria perché ne ha letto in una rivista, il titolo-sommario (ma anche la possibilità di sfogliare) non servono più. E quindi il titolo può diventare più corto, più facile da ricordare (dal libraio: “Vorrei un libro, ma non ricordo tutto il titolo. Era così lungo…”), più “nome proprio” del libro e meno “descrizione del libro”. L’invenzione delle quarte di copertina e delle bandelle (roba novecentesca, in sostanza) ha ancora più spostato la funzione del titolo verso la memorabilità, o la suggestività: il lavoro d’informazione si fa altrove, in altre zone della copertina.

3. So già cosa state pensando. I negozi in rete non vi permettono di sfogliare i libri. A volte potete consultare un estratto, ma in genere è un estratto fatto da cani (di un saggio sarebbe bene poter dare un’occhiata alla bibliografia, non certo alla prefazione). Quasi sempre (ma quasi mai se state acquistando un libro di seconda mano) avete a disposizione la descrizione dell’opera che nel libro fisico sta in quarta o in bandella. Ovviamente l’ideale sarebbe avere a disposizione per un tempo prefissato, cinque minuti, un’edizione digitale completa dell’opera: ma suppongo che la pirateria editoriale andrebbe in brodo di giuggiole. Per questo, nei negozi in rete, si moltiplicano gli strumenti che possono guidarvi nella scelta: le recensioni e le valutazioni di altri lettori, i suggerimenti del tipo “chi ha letto questo ha letto anche quest’altro”, e così via. Ma: avete l’impressione che, negli ultimi anni, diciamo negli ultimi dieci (da dieci anni in Italia c’è Amazon) i titoli dei romanzi siano cambiati? Avete l’impressione che le copertine – destinate sempre più a essere scrutate in formato francobollo su uno schermo, anziché esaminate dal vivo – siano diventate differenti? Avete l’impressione che le quarte di copertina siano scritte diversamente? E, pensate un po’: ha senso che il testo che viene offerto nella pagina del negozio in rete sia il medesimo testo che si trova stampato sulla quarta o sulla bandella del libro fisico? Ha senso che la grafica della copertina che scrutate in formato francobollo sia la medesima di quella che trovate nel libro fisico?

Giorgia Tribuiani, Bottega di narrazione, Corso di scrittura di base, Scrittura creativa, Creative Writing

4. Suppongo che gli acquisti nelle librerie fisiche avvengano diversamente dagli acquisti nei negozi in rete. Non conosco (ci saranno, ci saranno: ogni segnalazione è gradita) studi sui comportamenti dei consumatori. Io so che, se entro in una libreria fisica, è per sapere che c’è di nuovo o di interessante, così in generale o su un argomento specifico; se entro in un negozio in rete, è perché cerco un certo libro del quale so già che potrebbe interessarmi. Se entro in una libreria fisica, probabilmente ne uscirò con in mano un libro che non prevedevo di acquistare (se non altro perché ne ignoravo l’esistenza); se cerco di sapere che c’è di nuovo, boh, in materia di didattica della scrittura creativa, frugando in un negozio in rete, divento matto. Vi siete mai domandati perché è così difficile fare ricerche per argomenti nei negozi in rete? Io sì. E mi sono, da ignorante, risposto: perché i negozi in rete hanno privilegiato un altro modello. Fanno il possibile perché io acquisti ciò che acquistano tutti gli altri, e non fanno niente perché io acquisti ciò che solo io potrei acquistare. Hanno scelto di privilegiare non la ricerca ma il passaparola, non la specializzazione ma l’istinto gregario. Andrà bene così, non dubito.

5. Di “crisi della critica”, e specificamente della critica letteraria, si parla ormai da un po’: se ne parla da abbastanza tempo perché, ormai, quando qualcuno parla di “crisi della critica”, qualcuno sbuffi e dica che non se ne può più di parlarne. Tuttavia, vi prego, seguite questo ragionamento: se i negozi in rete chiedono al potenziale cliente di sapere già che cosa vuole acquistare, se il passaparola è privilegiato rispetto alla ricerca autonoma, ne consegue – ne dovrebbe conseguire – che i professionisti della mediazione culturale (tra i quali i critici, ma anche i giornalisti di cultura, eccetera), in quanto autori di ricerche affidabili e avviatori di passaparola, dovrebbero vedere esaltato il loro ruolo. Invece, a quanto pare, così non è stato. Al contrario, sono emersi nuovi mediatori culturali, generalmente – la sto tagliando con l’accetta, ve’ – caratterizzati da un certo dilettantismo, da una limitata capacità di ricerca autonoma, e da una grande capacità di generare passaparola: pensiamo ai, e soprattutto alle, bookgrammer (sulla questione del sesso delle bookgrammer, suggerisco un fondamentale articolo di Guia Soncini). La cosa che mi incuriosisce, in prima battuta, del bookgramming, è che in realtà fornisce sull’oggetto che a me interessa – il libro – pochissime informazioni: sicuramente meno di una recensione, meno di una segnalazione. La domanda che subito dopo mi faccio è: quali sono le informazioni che il bookgramming fa passare, e delle quali io non mi accorgo? E l’unica risposta che sono riuscito a darmi è: è una faccenda di accostamenti, di combinazioni.

6. “E i titoli?”. Ah, ve lo ricordavate, che avevo promesso di parlare dei titoli. E avete l’impressione che stia divagando. In realtà, non ho fatto altro che parlare di titoli, e provvederò a dimostrarlo. Ma intanto soffermiamoci su questa fotografia pubblicata in Instagram da Petunia Ollister, una delle più seguite bookgrammer italiane:

Petunia Ollister, Wolfgang Goethe

Il libro è uno dei quattro volumi del Viaggio in Italia di Goethe, nell’edizione della Biblioteca Sansoniana Straniera, collana curata da Guido Manacorda: volumetti in sedicesimo, stampati in caratteri minuscoli su carta di non grande qualità, di bella grafica e con buone curatele. (Io ci lessi, comperandoli per pochissime lire, da ragazzino, in una libreria di libri a metà prezzo, il Goetz di Berlichingen di Goethe, il Lohengrin di Wagner, La regina delle fate di Spenser, il Don Chisciotte e una riduzione del Persile di Cervantes, ec.). Accanto al libro stanno: un quadro con uno scorcio di Venezia, due sculturine d’animali, una tazza di caffè, un cucchiaino, ec., senza contare le cornici e il tessuto e il bicchiere e la caraffa. Ecco: la mia sensazione è che tutto l’insieme punti a dare la sensazione che il Viaggio in Italia “stia bene” accanto a quelle cose lì (nello stesso senso in cui diciamo che un certo berretto “sta bene” indossato insieme a una certa sciarpa), e che quindi il libro possa “stare bene” – nota: il libro, non l’opera letteraria – a chi abbia gusto per quelle cose lì. Che io personalmente trovi quel gusto un tantinello kitsch, non ha importanza qui: l’importante è l’idea che un libro debba “stare bene” a chi lo legge, che sia tutta una faccenda di gusto, che un libro si scelga nello stesso modo in cui si sceglie (o, potendo, si sceglierebbe) un tessuto, un soprammobile, una caraffa, un quadro da mettere in salotto. Difficile sostenere che non sia così.

7. Quindi, arrivando esplicitissimamente ai titoli: il punto non è tanto, oggi come oggi, mettere in capo al proprio romanzo un titolo che sia “informativo”, che dica cioè qualcosa sulla vicenda, sul dispositivo drammatico che la regge, eccetera. E non è neanche dire qualcosa sul clima della storia, sulle atmosfere, o sui luoghi (tipo: Il deserto dei Tartari, di Buzzati) o sul carattere della/del protagonista (tipo: Il conformista, di Moravia). Ed è ancora meno dire qualcosa sulla forma del romanzo, sul suo essere lineare o complesso, articolato o frammentato (tipo: Gino Bianchi. Resultanze in merito alla vita e al carattere, di Jahier). No. Il titolo può anche essere completamente irrelato dal contenuto del romanzo, dalla storia, dai personaggi, dalla forma della narrazione: basta che faccia capire a chi un romanzo così può “stare bene”. Bisogna invece che solleciti, e solletichi, un certo gusto.

8. Faccio un esempio autobiografico. Il titolo potrebbe essere: Come fare un titolo sbagliato. Il mio romanzo – il mio primo romanzo, visto che finora ho pubblicato sei libri di racconti e una quantità di altra roba, ma un romanzo mai – che uscirà a gennaio s’intitola: Le ripetizioni. In effetti dentro c’è un personaggio – ci penso solo ora, giuro – che campa dando ripetizioni di matematica: ma spero che a nessuno venga in mente di interpretare il titolo in questo modo. Dal mio punto di vista, questo è un titolo rematico, cioè un titolo che dice come è fatto un libro (qualcosa di simile a titoli come Racconti, Canzoni, Novelle brevi, Storia prima felice poi dolentissima e funesta – questo è di Pietro Citati): nel romanzo, infatti, il protagonista incorre continuamente in ripetizioni (con qualche bizzarria: non solo il presente ripete il passato, ma anche il passato ripete il presente). Anche nel testo le ripetizioni sono fitte: sia le ripetizioni di parole (è, da sempre, un tratto distintivo del mio stile) sia le ripetizioni di eventi. La mattina in cui il protagonista si sveglia a casa della sua ex compagna, dopo aver dormito con lei, è raccontata almeno quattro volte (e succedono quattro cose diverse): e così via. Non è che ci siano punti di vista diversi sulla realtà: è la realtà che, pur ripetendosi, non si ripete mai identica. (“La ripetizione è una forma di variazione”, dice una delle Strategie oblique di Brian Eno). Potrei facilmente dire a quali altre opere narrative il mio romanzo potrebbe essere accostato (non ne faccio una questione di valore, ma di somiglianze): dal romanzo Le gomme di Alain Robbe-Grillet al film Eternal Sunshine of the Spotless Mind di Charlie Kaufman (noto in Italia con l’orribile titolo Se mi lasci ti cancello) o composizioni musicali come Holidays Symphony di Charles Ives o quelle appunto di Brian Eno. Ma non saprei dire – e infatti il titolo non lo dice – a quali “oggetti” il mio romanzo potrebbe essere accostato. Non dice a quale gusto si rivolge. Poi, boh: magari funzionerà lo stesso. I titoli precedenti, quelli dei due brogliacci di lavoro (uno del 1998 e uno del 2002, figuràtevi), erano stati: Introduzione ai comportamenti vili e Discorso attorno a un sentimento nascente. Due titoli in parte rematici, ci tengo a notarlo. Forse più efficaci che Le ripetizioni. Chissà. Vedremo. Era un titolo perfetto per fine anni Sessanta, primi anni Sessanta. Forse sono solo arrivato troppo tardi.

9. Poi, c’è poco da fare, ci sono delle frasi, che magari scappano dette a qualcuno mentre si discute di un romanzo, e diventano un titolo. Càpita anche che ci sia la frase, che ci sia il titolo, ma che non ci sia il libro. (Una volta, durante una chiacchierata, un’amica redattrice editoriale coniò il titolo Svalvolate in amore. Io lo trovo eccellente, anche se inferiore a Le ragazze della terra sono facili. Comunque non ho ancora trovato chi scriva il libro). Si “sente” insomma, che quella combinazione di parole è un titolo. E a questo proposito, lo giuro, non sono mai riuscito a scovare un criterio – se non che si tratta spesso di versi: Svalvolate in amore, settenario; Le ragazze della terra sono facili, dodecasillabo sdrucciolo composto di tre quaternari, o se volete di tre piedi di quattro sillabe. Ci sono generi letterari che sembrano imporre titoli di un certo tipo (es. i titoli lunghi, o titoli-frase, per i libri memoriali di vittime del terrorismo: Senti come mi batte forte il tuo cuore (verso di Wisława Szymborska), Spingendo la notte più in là, Qualunque cosa succeda, L’inferno sono gli altri ec.), ci sono i titoli che imitano altri titoli (ho visto perfino un Il codice di Lynch, saggio dedicato al cineasta David Lynch), e generalmente stanno in capo a opere mediocri e imitative o epigonali, ci sono i titoli da libro autopubblicato (a es. quelli che cominciano con Il segreto di…), e via elencando e titolando. Per fare un buon titolo, alla fin fine, bisogna averne guardati molti. Averne meditati molti. Averne provati molti. Come al solito.

10. Ma la cosa fondamentale, fregandocene di qualunque altro discorso, è che il titolo possieda pochi requisiti: sonorità, memorabilità, pertinenza, coerenza con l’immagine di copertina. E che piaccia all’autore e all’editore. Tutto qui. (“Tutto qui? Mozzi, le pare poco?”, “No, ma è effettivamente tutto qui”). Consiglio finale. Autori: fidatevi degli editori; anche loro sbagliano, talvolta, magari spesso, ma il più delle volte hanno orecchio. Editori: non imponete i titoli, ragionate invece con gli autori, ragionate.

Scrittura creativa, Creative writing, Editing, Consulenza narrativa, Consulenza letteraria