di Giulio Mozzi
direttore della Bottega di narrazione
1. La prima domanda è: “Che cosa voglio? Che cosa spero?”. Perché, vedi, è una cosa sperare di fare un mucchio di soldi grazie a quel romanzo lì, ed è un’altra cosa sperare di restare in eterno – sempre grazie a quel romanzo lì – nella memoria della nazione; ed è un’altra cosa ancora sperare entrambe le cose. È una cosa sperare che il romanzo sia letto da tutti, e tutt’altre cose sono sperare che sia letto da molti, da parecchi, da un bel po’ di persone, da una ristretta cerchia, da qualcuno. È una cosa sperare che il romanzo sia letto, e fregarsene che sia letto o no (purché sia pubblicato). È una cosa sperare di aver fatto un lavoro notevole, e sperare di aver dato il meglio di sé stessi (e, ancora, tutt’altra cosa è sperare entrambe le cose). È una cosa sperare di entrare nella Letteratura, e tutt’altra cosa sperare di entrare nella Repubblica delle lettere (sì, ed è tutt’altra cosa ancora sperare entrambe le cose). È una cosa sperare di conquistarsi la stima del pubblico, e tutt’altra cosa sperare di conquistarsi la stima degli abitanti della Repubblica delle lettere, e tutt’altra cosa ancora sperare di conquistarsi la stima delle persone alle quali si vuole bene (e tutt’altra cosa è sperare tutte e tre queste cose, nonché solo due – la prima e la seconda, la prima e la terza, la seconda e la terza – di esse).
2. La seconda domanda è: “Qual è il mio scopo?”. Non è la stessa domanda del punto precedente. La speranza è un sentimento, lo scopo è qualcosa che si costruisce razionalmente. La seconda domand è dunque: “Qual è il mio scopo?”, ma potrebbe anche formularsi così: “Ho uno scopo?”. Al di là delle vaghe speranze, dei sentimenti di autoaffermazione, del desiderio di riconoscimento, dell’ambizione di finire dentro un’eletta schiera, qual è, concretamente, il mio scopo? In che modo voglio che cambi la mia vita? E: voglio che la mia vita cambi? Verso che cosa voglio che la mia vita cambi? Ho realizzato che quello che sto facendo – sto per spedire il mio romanzo a un editore – potrebbe cambiarla? Qual è il cambiamento che voglio? Che cos’è che non ho, ora, e che vorrei avere, dopo? Qual è il mio scopo?
3. La terza domanda è: “Perché lo faccio?”. Non è la stessa domanda del punto precedente: questa domanda guarda indietro, non guarda avanti. Da dove viene, ciò che faccio? Qual è l’origine, di ciò che faccio? E: l’origine di ciò che sto per fare ora – sto per spedire il mio romanzo a un editore – è la medesima origine di ciò che ho fatto finora – investire ore e ore e ore di lavoro, e so bene quanta fatica, per scriverlo, questo benedetto romanzo? Ciò che sto per fare è effettivamente il completamento di ciò che ho fatto finora? Sono due parti di un’unica azione, due movimenti di un’unico gesto? O tra ciò che ho fatto e ciò che sto per fare c’è una differenza, una distanza, magari un’inquietudine o un’incompatibilità? L’editore al quale sto per spedire il mio romanzo è un imprenditore: ma che c’entra l’impresa, che c’entra l’imprenditoria con ciò che ho fatto, e cioè scrivere un romanzo? Le imprese acquisiscono lavoro, beni e servizi: che cos’è il mio romanzo? È un bene? È un servizio? È un lavoro? Che cosa sono io, che ho scritto questo romanzo, per costoro ai quali sto per spedirlo?
4. La quarta domanda è: “Sono sicuro?”. O, più esattamente: “Quanto sono sicuro?. Sono davvero convinto che il romanzo che sto per spedire a un editore sia un romanzo degno di pubblicazione? Da dove viene la mia convinzione che il mio romanzo abbia un valore? E: che tipo di valore penso che abbia, il mio romanzo? In vita mia ho letto molti, molti romanzi; la gran parte sarà stata, com’è ovvio che sia, di valore nullo o scarso; una certa parte mi sarà sembrata di discreto valore; e alcuni mi saranno sembrati di grande valore; tuttavia: esattamente, di quale valore? Se I promessi sposi e I fratelli Karamazov sono due romanzi di valore, non è detto che abbiano un valore della medesima specie. Se Il paradiso delle signore e Orgoglio e pregiudizio sono due romanzi di valore, non è detto che abbiano un valore della medesima specie. La parola “valore” non è parola da usare solo per riempirsi la bocca. Dev’essere specificata, definita; il valore dev’essere descritto. Qual è il valore del mio romanzo? Quale, devo sapere, e poi mi domanderò quanto“.
5. La quinta domanda è: “Questo romanzo è finito?”. Non tutti gli aspiranti scrittori lo sanno, ma le case editrici e le agenzie letterarie sono invase da romanzi che hanno in comune la caratteristica di non essere finiti. Di essere approssimativi. Di essere troppo corti. Di essere troppo lunghi. Di essere scritti non tanto bene, o addirittura male. Di non avere dentro un’idea ben chiara. Di avere montaggi difettosi, o banali, o troppo arzigogolati. Non si tratta solo di aspetti tecnici. In un romanzo, come in qualunque opera d’arte, l’aspetto tecnico è indissolubile dall’altro aspetto – come lo chiamiamo, l’altro aspetto? Potremmo dire dall’aspetto poetico. Ecco: nel romanzo che stai per spedire a una casa editrice, c’è un’idea chiara di poetica? Non di teoria, di poetica. C’è un’idea chiara che cosa ci sta a fare, nel mondo, un romanzo? Di che cosa ci stanno a fare, in generale, i romanzi? Di che relazione c’è tra la vita di chi legge e i romanzi, tra la vita di chi scrive e i romanzi, tra la vita di chi scrive e di chi legge? Di che cosa è la vita?
6. La sesta domanda è: “Questo romanzo è bello?”. Sì, domandiamocelo seriamente. Dopo che ci hai investito tanto tempo, tanta fatica, tanto lavoro, tanto studio, eccetera eccetera, non è detto che il risultato sia un romanzo bello. Non facciamoci fregare dal soggettivismo. Non mentiamo a noi stessi. Non caviamocela dicendo che qualcuno, nella casa editrice, valuterà, deciderà, e che ci affidiamo al giudizio. Non caviamocela dicendo che la bellezza è qualcosa di impalpabile, di indefinibile, eccetera eccetera, perchè rischieremmo di concludere che della bellezza non ha senso parlare. E invece parliamone. Ciascuno di noi, di noi che scriviamo, lo sa, se ciò che scrive è bello o no. Anche nella bellezza ci sono dei gradi: puiò esserci una bellezza piccola e una bellezza grande, una bellezza transitoria e una bellezza eterna. Ma il punto è che può esserci, o non esserci, della bellezza, grande o piccola, transitoria o eterna, in quello che facciamo. E dunque: c’è della bellezza nel tuo romanzo? Non ti chiedo di saperla descrivere. La risposta è dentro di te, ma sai benissimo che la risposta che hai dentro di te può essere sbagliata: dunque rifletti. Medita. Esita.
7. La settima domanda è: “Che cosa vuoi fare a chi ti leggerà?”. Che cosa vuoi che accada a chi ti leggerà, mentre di leggerà, dopo che ti avrà letto? Che immagini, che pensieri, che sentimenti, che emozioni vuoi che sorgano nella sua mente e nel suo corpo? Comincia dalle cose elementari: vuoi che pianga? vuoi che rida? Vuoi che la sua voglia di vivere e di stare al mondo incrementi? Vuoi che appena chiuso il libro si butti dalla finestra? Vuoi comunicargli, come si usa dire, una visione del mondo? Vuoi che la sua percezione del mondo cambi? Vuoi che le cose del mondo appaiano per lui o lei, dopo la lettura, diverse? Vuoi modificare chi ti leggerà? E se sì, sai esattamente come vuoi modificarlo/a? O vuoi che chi ti leggerà, se qualcuno ti leggerà, resti dopo l’esperienza della lettura tale e quale, solo un po’ più riposato, sollevato dalle fatiche del mondo, distratto?
8. L’ottava domanda è: “Sai che cosa hai fatto?”. Risponderai: e sì che lo so, l’ho fatto io. Non essere così sicuro. Che cosa sia materialmente il tuo romanzo – un certo numero di parole, di vicende, di descrizioni, di dialoghi, eccetera – sicuramente lo sai benissimo; ma che cosa sia davvero, che parte di te costituisca, in che modo si pone difronte a te, in che modo scriverlo ti ha modificato, eccetera, forse non lo sai ancora. Pensaci un po’ su. C’è probabilmente – soprattutto se quello che hai fatto è un buon lavoro – qualcosa del tuo profondo che si è trasferito da dentro di te a quelle pagine, senza che tu te ne rendessi conto più che tanto. Cerca di rendertene conto per bene.
9. La nona domanda è: “Questo romanzo fa del male a qualcuno?”. Adesso lasciamo perdere le tirate sull’autonomia dell’arte in generale e della letteratura in particolare. Un’opera d’arte, se è un’opera d’arte bella, fa bene alla vita. Il tuo romanzo, che è un’opera d’arte (magari un’opera d’arte brutta, ma pur sempre un’opera d’arte), fa bene alla vita? Può aumentare la vitalità di chi lo leggerà? Può rendere la vita di chi lo leggerà più piena, più consapevole, più bella, più autonoma, più divertente, più positiva? O è un romanzo che può fare del male a qualcuno? Non dico alla zia, quella che hai usato come modello per il tuo personaggio di cattiva assoluta, non dico questo: ti diserederà,e punto. Ma sei sicuro, per esempio, che chi lo leggerà non possa provare, nel leggerlo, un dolore inutile?
10. La decima domanda è: “Sei consapevole di essere uno delle migliaia e migliaia che ci provano?”. È utile ricordarselo. Quanti romanzi ci restano, del Novecento? Ciascuno faccia il conto, e ciascuno farà un conto diverso, secondo i gusti e le competenze; mettiamo che ne restino dieci, o trentacinque, o settantsette. Rispetto al numero dei romanzi pubblicati: polvere, quasi nulla. E immagina il confronto col numero dei romanzi non pubblicati. Quindi devi essere consapevole di questo: che tu sei uno dei tantissimi che ci provano, e potresti sbagliarti; e se anche un editore, magari un editore buono, ti pubblicasse, resterai comunque uno dei tanti che ci hanno provato. Riuscire, ci riescon pochi. Non è detto che tocchi a te.
* * *
Quanto al decimo punto, riporto un breve saggio di Giuseppe Pontiggia da «L’isola volante».
Titolo: «L’immaginazione del presente».
«“Posterità! Perché gli uomini domani dovrebbero essere meno stupidi di oggi?”
Così annotava Jules Renard nel suo “Journal” (24 gennaio 1906).
Ma dieci mesi dopo chiosava:
“La posterità ha un debole per lo stile.”
In questo dialogo a una voce Renard ha racchiuso i termini del problema e posto le basi per non risolverlo.
È improbabile infatti, come già conveniva Leopardi nel “Parini ovvero della Gloria”, che nel futuro “le facoltà del cuore, della immaginativa, dell’intelletto saranno maggiori che oggi”. Ed è certo che la tradizione più feconda, nella storia dell’uomo, è quella della stupidità. Ma la predilezione dei posteri per lo stile non è meno aleatoria.
È vero che tale predilezione farà giustizia, per usare una espressione azzardata, dei meriti che l’attualità suole elargire sotto l’influsso della moda, dell’interesse, della complicità, del moralismo. Le discriminazioni politiche, decisive nella valutazione dei contemporanei, avranno la stessa importanza che per noi apprendere che il guelfo Dante era bianco anziché nero. Certo attualismo apprensivo, attento più alle date del calendario che alla vitalità del testo, non avrà neanche la ricompensa dei poeti del Risorgimento, un busto ai giardini e il nome su una via, anche se con scarsa circolazione di lettori. E le aspirazioni gravi di molti autori, cultori della fedeltà a sé stessi, della autenticità e dell’impegno troveranno una deludente conferma: solo per quelle vie pensavano che la loro opera avrebbe acquistato un senso e non si sbagliavano. Obliato quel senso, nessuno gliene troverà un altro.
Lo stile è però un valore che neanch’esso si sottrae, almeno nelle quotazioni, alle fluttuazioni del gusto. I prezzi raggiunti dagli Impressionisti alle aste d’oggi non dimostrano né amore per l’arte né consapevolezza della qualità, ma solo una presenta di una liquidità finanziaria che non ha precedenti nella storia e che cerca investimenti in beni di monopolio. E fluttuazioni altrettanto sconcertanti rivela la fortuna critica degli scrittori, spesso repertorio di infortuni. Basta pensare che “poeta di niun giudizio e ingegno” veniva definito Dante da Paolo Beni nel secolo a lui più avverso, il Seicento. E Francesco Fulvio Frugoni, voce esemplare di un gusto diffuso dichiarava: “Quanto a me, stimo più, e credo certo di non sbagliare, una strofa delle odi del Vidali, del Santinelli, del Ciampoli, Del Testi […]; un sonetto di Ciro di Pers, di Tiberio Ceuli, del Torcigliani, del Rubilli […] che tutta la Commedia di Dante.”
Qualche decennio dopo uno dei più acuti viaggiatori stranieri in Italia, Charles de Brosses, così compendiava, in una lettera da Padova, un travaglio critico secolare su Giotto: “Questo gran maestro, tanto vantato in tutte le storie, oggi non sarebbe neanche accettato per dipingere un campo di pallacorda.”
Nella inaffidabilità dei posteri, come dei contemporanei, il compito forse più arduo, ma più importante, per chi scrive e chi legge, è l’immaginazione del presente.»