Chi sono le persone che leggono i nostri libri?

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di Giulio Mozzi
direttore della Bottega di narrazione

Poi accadde una cosa strana. Quinn trasferì l’attenzione sulla ragazza alla propria destra per vedere se da quella parte trovava materiale da lettura. Doveva avere cifca vent’anni. Sulla guancia sinistra aveva molti foruncoli dissimulati da un roseo impiastro di fondotinta, e in bocca faceva scricchiolare una pallin adi chewing-gum. In effetti stava leggendo un libro, un tascabile dalla copertina vistosa, e Quinn si chinò impercettibilmente verso destra per leggerne almeno il titolo.
Contro ogni sua aspettativa, era un libro che aveva scritto lui stesso: Pressione suicida di William Wilson, il primo dei romanzi di Max Work. Quinn aveva immaginato quella situazione: l’improvviso, inatteso piacere di imbattersi in un suo lettore. Aveva immaginato addirittura la conversazione che ne sarebbe seguita: lui prima soavemente schivo, mentre il lettore elogiava il libro; poi, ma con estrema riluttanza e modestia, disposto a scrivere il suo autografo sul frontespizio, ‘se proprio insiste’. Ma adesso che la scena si svolgeva, si sentì deluso, quasi stizzito.
La ragazza seduta accanto a lui non gli piaceva, e lo indispettiva quello sfogliare distrattamente le pagine che gli erano costate tanta fatica.

Quinn è uno scrittore di gialli che pubblica sotto lo pseudonimo di William Wilson; Max Work è il protagonista (e voce narrante) dei suoi libri. La scena si svolge nella Grand Central Station di New York. Il passo è tolto da Città di vetro, il primo dei tre romanzi a incastro che compongono la Trilogia di New York di Paul Auster. (E, già che ci sono: la fotografia in cima all’articolo è di Steve McCurry ed è stata scattata nello Yemen). I social media moltiplicano le occasioni di scene simili: la lettrice o il lettore che scrivono qualcosa dopo aver letto un nostro libro possono mettere un rinvio (un tag, se preferite) che ce ne avvisa, o possiamo noi più o meno casualmente (conosco colleghi che passano le giornate, nelle settimane successive all’uscita di un loro lavoro, a sfogliare pagine e profili di Facebook, Instagram e altre diavolerie) imbatterci in una nota di lettura, in un giudizio buttato là, in una frase citata (con cuoricini o con bleah!, a seconda), eccetera. Prima gli incontri erano, come quello raccontato da Auster, casuali.

Una volta, ero su un treno tra Bologna e Reggio Emilia – se non ricordo male. Un regionale. Una ragazza, dall’aria di studentessa universitaria, si sedette di fronte a me e tirò fuori dallo zainetto un libro mio, La felicità terrena. Io stavo leggendo Underworld di DeLillo, appena uscito in Italia, quindi era il 1999. A un certo punto mi accorsi che la ragazza piangeva: piano, senza singhiozzi, senza perdere la concentrazione nella lettura. Commisi l’errore di guardarla un mezzo secondo di troppo. Lei se ne accorse.
“Mi scusi”.
“Non è niente”.
Posò il libro piegandoci dentro l’aletta, tirò fuori un fazzoletto di carta, si asciugò gli occhi, si soffiò il naso.
“È una storia molto commovente”.
Vedendo in che punto del libro, abbastanza all’inizio, era infilata l’aletta, azzardai:
“È la storia del bambino morto”.
“Sì. Lo ha letto anche lei?”.
“Sì. Ma non volevo interromperla. Mi scusi ancora”.
“Niente”.
La ragazza ricominciò a leggere. Le si inumidirono ancora gli occhi, me ne accorsi, a occhio quando arrivò alla fine di quel racconto lì. Scendemmo entrambi a Reggio Emilia. Ci salutammo come ci si saluta tra sconosciuti.
La sera, ero in pizzeria con Giuseppe, la ragazza entrò con due o tre amiche. Conosceva Giuseppe. Giuseppe mi presentò. Ci fu l’imbarazzo che potete immaginare. La ragazza diventò tutta rossa. Io allargai le braccia.
Dopo la pizza, la ragazza venne al nostro tavolo.
“Perché non me l’ha detto?”.
“Il racconto è là. Io ormai non c’entro niente”.
“Spero non si sia offeso”.
“E perché mai?”.
“Abbiamo avuto una specie di momento di intimità, solo che lei lo sapeva e io no”.
“Ma chiunque legga qualcosa che ho scritto ha un’intimità con me, della quale io non so niente”.

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Nel 1993, quando uscì il mio primo libretto, l’editore mi chiese cosa scrivere nel risvolto, quello dove la biografia dell’autore.
“Scrivi: Giulio Mozzi è nato nel 1993. Abita a Padova in via Tal dei Tali numero Tale”.
(Ora non abito più lì).
“Sei matto. Arriveranno i rompiscatole”.
“Ma no”.
Il libro vendette, nel primo anno di distribuzione, crica milleduecento copie; e, così a occhio e memoria, una persona su due tra coloro che lessero non resistette alla tentazione. Ricevetti lettere, cartoline, anche qualche scampanellata. (Nessun rompiscatole). Ricordo lettere che restituivano le impressioni di lettura, una cartolina con su scritto “Scrivere non le viene bene. Cambi mestiere”, qualche richiesta di consigli per dilemmi d’amore (aiuto!), qualche invito per incontri pubblici. Mi mandò un racconto di due pagine, molto bello, un certo Diego De Silva, con una lettera che diceva più o meno: io sarei praticante avvocato, ma la mia futura moglie dice che dovrei dedicarmi a queste cose qui (gli telefonai; ci incontrammo qualche mese dopo dalle sue parti, a Salerno).

Il 14 gennaio è uscito nelle librerie un mio libro nuovo, un romanzo; l’ufficio stampa ha fatto il suo lavoro e sono già usciti degli articoli qua e là; un po’ di amici e conoscenti, nonché di persone perfettamente a me sconosciute, l’ha letto e ha ritenuto di scriverci su qualche riga nel Facebook (che è l’unico social media che io riesca a seguire sensatamente). Erano molti anni che non facevo un libro davvero ben promosso e distribuito (diciamo dodici anni, via), e quindi a tutto questo fiorire di reazioni non c’ero abituato. Mi càpita di avere dei sentimenti di imbarazzo – quando ho l’impressione che ciò che ho scritto abbia turbato, abbia “mosso dentro” qualcosa -, mi càpita di avere delle belle sorprese – quando una nota, anche scritta al volo, mi fa pensare a ciò che ho fatto in un modo nuovo, o più preciso -, mi càpita di sbalordire di fronte a certi giudizi un tantino sopra le righe e di scocciarmi un po’ di fronte a certe liquidazioni non argomentate: tutto ciò lo potete immaginare.

Quello che per molti è difficile da capire – me ne sono ben accorto: sono più di vent’anni che faccio la levatrice di libri, in particolare di primi libri – è che il mondo è pieno di gente e che il testo al quale abbiamo tanto lavorato è destinato, se tutto va bene, a diventare prima o poi un libro, cioè un oggetto che finirà, sempre se va tutto bene, in tante mani, che sarà letto da tanti occhi, che sarà accolto da tante sensibilità diverse. Tutto quello che possiamo fare, noi che scriviamo, è: cercare di essere il più precisi possibile, cercare di dare il meglio di noi stessi. Difficilmente faremo un capolavoro – quanti se ne scrivono, in un secolo? – ma almeno potremo considerarci onesti.

Chi sono, dunque, le persone che leggono i nostri libri? Non possiamo saperlo se non per caso, per incontri fortuiti in treno (ecco a cosa servono i treni: a rendere possibili gli incontri fortuiti; e speriamo che tra qualche mese torneremo a viaggiarci in serenità) o attraverso i tentacoli dei social media (che ci fanno incontrare chi vogliono loro, non dimentichiamocene), o in situazioni più formalizzate – ma per questo, mi permetto di dirlo, un pochino meno autentiche – come gli incontri in libreria (magari via Zoom), le conferenze eccetera. Ma io dico: le persone che leggono i nostri libri, dobbiamo cercarcele. Dobbiamo avere interesse per loro. Gratitudine, dobbiamo avere; e anche curiosità. Potremmo anche scoprire che siamo letti da persone che non ci piacciono tanto: dovremmo esserne contenti: forse il nostro libro è meno pieno di pregiudizi, meno classista, meno xenofobo, meno snob di noi (forse ci abbiamo messo dentro effettivamente il meglio di noi). Le persone che leggono i nostri libri, anche se non le conosceremo mai, fanno esistere qualcosa. Non sto parlando di marketing: quello è un problema dell’editore, e a me non me ne importa niente. Entrando negli occhi, nella mente, nella memoria delle persone che ci leggono le nostre storie entrano – uso una parola di moda – in una specie di cloud, in una nuvola. Si staccano da quei tanti oggetti singoli che sono materialmente i libri e diventano qualcosa che gira, che circola. Magari tra pochi, ma circola.

Chi sono le persone che leggono i nostri libri? In realtà non possiamo saperlo, possiamo conoscerne qualcuna – be’, ci saranno anche gli amici, i conoscenti ec. -, ma la gran parte rimarranno persone sconosciute, anche se magari abbiamo intravisto un post o si sono fatte un autoscatto col nostro libro in mano. Sono persone con le quali siamo riusciti a condividere qualcosa: un’immaginazione, una visione, forse un sentimento, magari qualche grumo o stringa di parole che rimarranno nelle memorie altrui. È tanto. Se non avete mai provato queste emozioni, sappiate che è tanto. Le persone che leggono i nostri libri sono la ragione per cui abbiamo impegnato tanto tempo, tanto lavoro, tanta fatica, tanto studio, tanta pazienza. Dobbiamo avere gratitudine, tanta gratitudine, già ora, anche se la nostra opera non è ancora finita, non è ancora scritta, non riusciamo ancora a intravvederne la forma, ci fa disperare. Il desiderio di gratitudine, di essere grati, ci guidi.

La ragazza seduta accanto a lui non gli piaceva, e lo indispettiva quello sfogliare distrattamente le pagine che gli erano costate tanta fatica. Ebbe l’impulso di strapparle il libro dalle mani e uscire dalla stazione di corsa.
Tornò a guardarla in faccia, cercando di sentire le parole pronunciate con la mente, osservandone gli occhi che andavano avanti e indietro sulla pagina. Doveva essersi scoperto troppo, perché un attimo dopo la ragazza si voltò verso di lui con un’espressione irritata e disse: – Le serve qualcosa, per caso?
– Mi domandavo solo se il libro le piaceva.
La ragazza fece spallucce. – Ho letto di meglio e ho letto di peggio.
Quinn avrebbe voluto chiudere subito la conversazione, ma qualcosa glielo impedì. Prima di potersi alzare e andarsene, le parole gli erano già uscite di bocca. – Lo trova appassionante?
La ragazza alzò di nuovo le spalle facendo schioccare rumorosamente la gomma. – Boh, sì. C’è la parte dove il detective si perde che fa abbastanza paura.
– È bravo, come detective?
– Per bravo, è anche bravo. Ma parla troppo.
– Preferirebbe più azione?
– Credo di sì.
– Se non le piace, perché continua a leggerlo?
– Boh, non lo so -. La ragazza fece spallucce per la terza volta. – Perchè fa passare il tempo. Comunque, non è una roba fondamentale. È solo un libro.

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Una opinione su "Chi sono le persone che leggono i nostri libri?"

  1. Io vorrei sapere chi mi legge ma vorrei ancora di più non sapere chi mi legge, perché da quando ho letto le recensioni del mio primo romanzo non sono più riuscita a scrivere, non solo per colpa delle parole brutte e cattive, ma anche per colpa delle alte aspettative di chi mi vuole leggere ancora. Aggiungici il senso di colpa di sapere che non ho in me la forza di passare oltre il giudizio della “gente” e la frittata è fatta.

    Mi hai fatto venire nostalgia dei regionali e dei tempi morti da dedicare alla lettura, io partivo da Reggio e studiavo a Parma ma a volte il treno era in ritardo di 180 minuti e riuscivo a infilarci un intero romanzo.

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