di Giulio Mozzi
direttore della Bottega di narrazione
Che relazione c’è tra la scrittura creativa e una pala meccanica? (Vedi sopra). Credo che la maggior parte di voi risponderebbe senza esitazione: nessuna. E non si sbaglierebbe. Nel cercare un’immagine-guida per questo articolo, ho deliberatamente cercato di farmi venire in mente la cosa più lontana possibile dalla scrittura creativa (c’erano anche gli echinodermi, a dire il vero). Eppure se vi assegnassi un compito specifico, ossia di trovare appunto quale relazione ci sia tra una pala meccanica e la scrittura creativa, vi basterebbe qualche minuto per fare un po’ di associazioni.
Per esempio. Tra lo scavare e lo scrivere (soprattutto tra lo scavarsi dentro e lo scrivere) i paragoni si sprecano. La scrittura è una tecnologia (se non ci credete, o l’affermazione vi lascia perplessi, vi tocca andare a leggere Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola di Walter J. Ong, il Mulino, da cui imparerete che prima ancora della scrittura è il linguaggio a essere una tecnologia: è un libro molto bello) e una pala meccanica è un prodotto tecnologico, è il frutto di una tecnologia. Pier Paolo Pasolini riuscì a scrivere un poemetto intitolato Il pianto della scavatrice, e quindi ecco che la nostra pala meccanica è facilmente integrata nella cultura umanistica. E così via.
Questa premessa per dire che, con un minimo di sforzo, qualunque cosa può essere associata a qualunque altra cosa. Potete provare, se volete, a esercitarvi con “mela e suocera” (no, troppo facile), “tombino e cistifellea”, “posacenere e Gargantua”, “cornicione e pantaloni a zampa di elefante”, eccetera.
Ora, però: se faccio una ricerca per immagini in Google con le parole chiave “scrittura creativa” (tra virgolette, mi raccomando), i primi risultati che ottengo sono questi:

Contiamo: cinque penne stilografiche, due penne d’oca, due matite, una macchina per scrivere anni Quaranta, quattro scritture corsive, nove immagini che organizzano lettere dell’alfabeto in forme “naturali” (penna, getto d’acqua, albero, colpo di vento ec.), due lampadine, una pila di libri, una tazza di caffè, uno smartphone, un pennarello. Diciamo che ce n’è abbastanza, se le associazioni sono queste, per decidere che ciò che chiamiamo correntemente, con un pigro calco sull’angoamericano “Creative Writing“, “scrittura creativa”, forse dovrebbe essere chiamato in altro modo: a scanso di equivoci. Mi permetto infatti di credere che ben pochi tra voi scrivano con la penna stilografica, meno ancora con la penna d’oca, forse qualcuno con la matita, nessuno con una Remington d’annata, tutti (magari in seconda stesura) con un computer. Ma il computer nella nostra schermata-campione non c’è.
D’altra parte. Possedete un Kindle? Il Kindle è il dispositivo venduto da Amazon per la lettura dei libri digitali prodotti da Amazon. Come tutti i dispositivi di questo tipo, se per un po’ non lo usate sparisce la pagina che avevate aperta e compare un salvaschermo. Ecco i tre salvaschermi che più frequentemente appaiono sul mio Kindle:
Caratteri mobili di piombo, pennini, quotidiani. I quotidiani ancora sopravvivono, benché se ne profetizzi con sempre più insistenza l’incombente sparizione; dei pennini s’è detto; ma dubito che molte persone, tra le tante che usano un Kindle, abbia un’idea precisa dei caratteri mobili (un’idea vaga, sì). Io ce l’ho perché, per motivi professionali, ho cominciato a frequentare tipografie nel 1982, e ho assistito a una bella porzione dell’evoluzione tecnologica che ha portato dalla Linotype alla fotocomposizione, e dalla fotocomposizione ai sistemi che si usano oggi; e poi sono curioso non solo della letteratura, ma anche degli strumenti tecnologici che le permettono di esistere.
Dunque: l’immaginario legato alla lettura e alla scrittura contiene una grande quantità di oggetti che sono accomunati, mi azzardo a dire, dalla nostalgia per ciò che non si è mai conosciuto. Mi càpita, parlando con i miei allievi, di scoprire che per alcuni un libro degli anni Cinquanta, per esempio, un volumetto della vecchia Bur,

è un libro “antico”: e l’antico, si sa, come il “genuino”, il “chilometro zero”, il “fatto a mano”, il “come lo faceva la mi’ nonna”, è valorizzante.
Allora: il Kindle Amazon si “traveste” da ciò che (non da solo) sta facendo scomparire: la carta stampata, la scrittura a pennino, i caratteri tipografici in piombo. La scrittura creativa è associata a pratiche arcaiche, a tecnologie non più in uso e forse mai effettivamente usate da chi alla scrittura creativa oggi si interessa. È evidente che c’è, se non una mistificazione, un equivoco. Un colossale equivoco. Un equivoco così grosso che, per esempio, la pagina della Wikipedia italiana dedicata alla scrittura creativa è piena di sciocchezze.
Vi propongo un quiz, anzi una serie di quiz:
– La Divina commedia è scrittura creativa?
– I Promessi sposi sono scrittura creativa?
– Gli Esercizi di stile di Raymond Queneau sono scrittura creativa?
– Infinite Jest di David Foster Wallace è scrittura creativa?
– La pubblicità dell’acqua minerale inventata da Annamaria Testa (“Liscia, gassata, Ferrarelle”) è scrittura creativa?
– Il Discorso della discesa in campo di Silvio Berlusconi (“L’italia è il paese che amo”, ec.) è scrittura creativa?
– Seta di Alessandro Baricco è scrittura creativa?
– Le poesie di Alda Merini sono scrittura creativa?
– Questo articolo è scrittura creativa?
– I giochi di parole sono scrittura creativa?
– Il sonetto Il lonfo non vaterca né gluisce di Fosco Maraini è scrittura creativa?
– I romanzi di Fabio Volo sono scrittura creativa?
– Gomorra di Roberto Saviano è scrittura creativa?
Se avete risposto “Sì” a tutte le domande potete smettere di leggere questo articolo: la pensiamo allo stesso identico modo, e non ho niente di interessante da aggiungere. Se avete escluso dal novero della scrittura creativa i Promessi sposi o Gomorra, allora andiamo male. Se avete incluso nella scrittura creativa solo Queneau, Baricco e la Ferrarelle, andiamo malissimo. Dunque, provo a spiegarmi.
Se fosse (in Italia) una materia d’esame universitario, la scrittura creativa si chiamerebbe probabilmente qualcosa come Teoria e tecnica della composizione di testi scritti e orali narrativi, poetici e drammatici; e sarebbe appena appena distinta dalla retorica, ossia dalla Teoria e tecnica della composizione di testi scritti e orali espositivi, argomentativi, celebrativi e persuasivi. Un’idea “allargata” della retorica potrebbe comprendere entrambi gli insegnamenti, o nominarli con semplice schiettezza: Retorica artistica e Retorica dell’argomentazione. Un altro nome che a me piacerebbe molto, ma che credo non possa avere grande successo, è: Letteratura pratica, ovvero Pratica della letteratura.
Breve excursus: nell’antichità la retorica era la scienza del discorso, prevalentemente se non quasi eslcusivamente del discorso giudiziario, politico e celebrativo. I trattati di retorica (Cicerone, Quintiliano) dedicavano molto spazio alla costruzione del discorso: trovare gli argomenti (inventio), disporli nell’ordine più conveniente (dispositio), ornarli verbalmente (elocutio), accompagnarli nell’emissione del discorso con un’appropriata comunicazione non-verbale (actio), mandarli a mente e condirli di frasi memorabili (memoria). Nel corso della Bassa Antichità e del Medio Evo pian piano l’insegnamento della retorica si ridusse quasi esclusivamente all’elocutio. I trattati di retorica del Seicento erano trattati sulle figure retoriche – e sulla metafora in particolare. Nel Settecento (sto tagliando con l’accetta) entrò in uso il termine “belle lettere”, poi sovrano in tutto l’Ottocento, e i libri che insegnavano le belle lettere illustravano il modo di comporre i principali tipi di poesie (distinte normalmente secondo la forma metrica, non secondo temi e contenuti) e i principali tipi di discorso e di testo scritto; qualcuno dava un certo spazio alla novella. Ma in questa manualistica – lo dico da appassionato: spesso splendida – lo spazio dedicato a quella cosa con la quale noi oggi sostanzialmente identifichiamo la letteratura, ovvero il romanzo, è spesso zero, talvolta minimissimo. Il romanzo, ancora all’epoca – tanto per dire – dei Promessi sposi, era considerato un genere letterario non solo minore, ma addirittura disonorevole (Walter Scott, poiché teneva a una certa buona reputazione ottenuta come poeta, non firmò mai i suoi romanzi). La chiesa, poi, i romanzi li odiava (oggi pare impossibile, ma anche I promessi sposi fu ferocemente attaccato dai preti: e d’altra parte don Abbondio è una merdina, fra’ Cristoforo un assassino (pentito, ma assassino), il padre provinciale dei cappuccini un maneggione, la monaca Gertrude un mostro, perfino il cardinale è accusato di aver creduto alle dicerie degli untori e di aver contribuito a diffondere la peste autorizzando la processione…).
La cosiddetta scrittura creativa, quindi, altro non è che la letteratura. L’insegnamento della letteratura si pratica, per quel che ne sappiamo, più o meno da quando la letteratura esiste (lo stesso si potrebbe dire per la pittura, la musica, l’architettura eccetera). Nel corso dei secoli i contenuti specifici dell’insegnamento della letteratura sono cambiati, poiché cambiava la letteratura: per esempio, all’epoca di Cicerone la “narrazione di eventi immaginari in forma tale che possano essere creduti per veri”, ossia ciò che volgarmente oggi noi chiamiamo “romanzo”, praticamente non esisteva; e pertanto l’insegnamento della letteratura (della retorica, o dell’oratoria, come allora si diceva) non li contemplava. Ovviamente, da sempre, buona parte dell’insegnamento della letteratura consiste nella lettura; più precisamente, nella lettura guidata, cioè nella lettura in cui un insegnante (o un commento, o un saggio critico ec.) guida il lettore non solo a godere della bellezza del testo (nel Novecento lo si chiamava “commento estetico”: se qualcuno ha studiato la Divina commedia col commento di Attilio Momigliano, per esempio, sa di cosa parlo) ma anche, se non soprattutto, a capire come il testo è fatto (e, implicitamente o esplicitamente, come si fa a farlo: e potrei portare ad esempio le “analisi di testi esemplari” compiute da Pier Vincenzo Mengaldo in Attraverso la prosa italiana e Attraverso la poesia italiana, entrambi pubblicati da Carocci).
C’è un passo di una delle Operette morali di Leopardi, quella intitolata Del Parini o della gloria, nella quale l’autore mette in bocca al personaggio quello che possiamo tranquillamente immaginare sia il suo proprio pensiero (riproduco dall’edizione originale, disponibile in Wikisource):
Ecco: qui mi pare che la circolarità tra lettura e scrittura, scrittura e lettura, sia dichiarata come meglio non si potrebbe. Se in Italia, diciamo ai primi del Novecento, l’insegnamento della pratica della letteratura (o della “letteratura pratica”, come a me piacerebbe dire) è caduto in disuso, è per effetto della dominante cultura idealistica: secondo la quale l’arte è intuizione, e la tecnica (ciò che si può insegnare: perché l’intuizione no, quella non la si può insegnare) è trascurabile. Benedetto Croce riteneva che la retorica fosse da conoscere al solo scopo di evitarla: ma basta leggere attentamente qualche sua pagina per trovarcene, di retorica, tantissima: e usata benissimo. Proprio quella retorica “discreta, fine, di buon gusto” che il Manzoni (che il Croce ammirava per la lingua, ma giudicava più pedagogo che artista) invocava nell’introduzione ai Promessi sposi.
Vado a concludere: che cosa è dunque la scrittura creativa? È la letteratura. E che cos’è l’insegnamento della scrittura creativa? È l’insegnamento della pratica della letteratura: come si scrive, come si inventa, come si narra, come si adorna il discorso, come si fanno i versi, tutte quelle cose lì. Niente di nuovo: cose che si insegnavano duemill’anni fa. Ovviamente tra pratica della scrittura e pratica della lettura c’è un ricircolo continuo; e vale non solo il precetto, ormai luogo comune, “Se vuoi scrivere, prima leggi!”, ma anche il precetto inverso, un po’ meno luogo comune: “Se vuoi leggere, prima scrivi!”.
Naturalmente bisognerebbe poi discutere su quali siano i confini della letteratura. Vedo persone, di fronte a un romanzo veramente brutto, indignarsi ed esclamare: “Questa non è letteratura”. Ebbene, io direi piuttosto: “Questa è cattiva letteratura”. Perché sennò, mi sembrerebbe come se, di fronte a un cane veramente brutto, dicessimo: questo non è un cane.
