Ma, in definitiva, che cos’hanno i «classici» di diverso da noi?

di Valentina Durante, docente della Bottega di narrazione

Prendiamola larga e partiamo con un sondaggio: dopo aver letto queste due quarte di copertina – testo A e testo B – quale dei due romanzi compreresti?

Testo A:

un appuntamento mancato…
una serata di poesia erotica… il finanziere e Dio…
amori e investimenti… l’infelicità domestica…
ritratto del mentitore… fuga dal grattacielo di vetro…
l’investigatore privato…
teoria dell’abbandono… generazioni…

UNA INCONFONDIBILE SCRITTURA
UN GRANDE ROMANZO
RICCO DI PATHOS E IRONIA

Testo B:

Poi cominciò ad avere paura. Non era mai arrivato in ritardo.

Un pomeriggio di giugno, in una grande città, un professionista sparisce senza lasciare tracce. Il romanzo non è solo la ricostruzione indiretta della vita dello scomparso, ma è soprattutto la storia degli “altri”, che reagiscono in modi imprevedibili a un evento inesplicabile. La grande sera segna per Pontiggia un ritorno alla sperimentazione: un’opera di largo respiro compositivo e dalla struttura innovativa, quasi una giostra nella quale si incontra una galleria di “anime morte”, diventa un affresco impietoso dell’Italia degli anni Ottanta, una satira lucida e amara di una società di pieni illusori e di vuoti reali.

Ovviamente si tratta dello stesso romanzo: La grande sera di Giuseppe Pontiggia. Il testo A compare nella quarta di copertina (anzi, nella quarta della sopraccoperta) dell’edizione uscita per Mondadori nel marzo 1989, che a luglio dello stesso anno si aggiudicherà la vittoria in un combattutissimo Premio Strega. Il testo B è tratto della quarta dell’edizione uscita per la collana Oscar Mondadori nel 2018; è una ristampa dell’edizione 1995, sulla quale Pontiggia è intervenuto con «profonde» per quanto «non vistose» modifiche. Giuseppe Pontiggia era un instancabile correttore di sé stesso e La grande sera non è l’unico testo sottoposto a rimaneggiamenti dopo la pubblicazione. Così è stato anche per La morte in banca. Cinque racconti e un romanzo breve (Rusconi e Paolazzi 1959, il suo primo libro; nell’edizione attuale, per Mondadori, i racconti sono sedici), per Il giocatore invisibile (Mondadori 1978, il primo romanzo che gli portò il consenso della critica e del pubblico), per Il raggio d’ombra (Mondadori 1983, il suo romanzo – a mio giudizio e non solo mio – più debole), e soprattutto per L’arte della fuga (Adelphi 1968) che di Pontiggia è il romanzo più sperimentale, collocato a metà fra poesia e prosa, nella sua prima edizione pressoché ignorato dai lettori.

Confrontare le prime edizioni con le riscritture è un esercizio tremendamente utile per chi scrive (lo fa Giulio Mozzi qui, proprio con l’incipit de La grande Sera); come un maestro zen che non si preoccupa di definire che cosa lo zen sia, Pontiggia era così attento alle questioni di stile da imporre a sé stesso di ignorarle, nel caso in cui questo stile tendesse a sclerotizzarsi prendendo una forma meccanicistica:

«Ma attenzione, quando uno scrittore, come un pittore, arriva al successo, tende fatalmente a replicarsi, perché questa è la sollecitazione che gli viene dal mercato, dal pubblico, dalla critica. È quasi inevitabile che perda d’interesse. Oggi lo stile che si impone è quello che l’autore tende a replicare. Io credo invece che sia necessario arrivare a scoprire il proprio mondo creativo attraverso un lavoro continuo, ininterrotto, in cui lo stile non sia il pensiero primo e dominante» (da un’intervista di L. Lepri, «Panta», 1997).

Ho citato non a caso un passo in cui Pontiggia parla di «stile», di «successo», di «mercato», di «pubblico», di «critica». Infatti quel che a noi importa qui – e torniamo al sondaggio – è di confrontare due testi che Pontiggia non ha scritto (certamente, per impossibilità biologica, non ha scritto il testo B, essendo morto nel 2003; e in quanto all’A, possiamo supporre con un buon margine di certezza che non sia suo) e che presentano La grande sera sul «mercato», dunque presso un determinato «pubblico», e che a tale scopo fanno uso di un determinato «stile».

Ecco i due testi per come appaiono sui rispettivi volumi (l’edizione del 1989 ha in copertina il particolare di un dipinto di Henri Rousseau, Una sera di carnevale; l’edizione del 2018 un’illustrazione del Craig Fraizer Studio).

Edizione 1989
Edizione attualmente in commercio, 2004

Proviamo ad analizzarli.

Il testo A ci appare subito un po’ datato. Certe scelte stilistiche sono demodé se non addirittura ingenue, vedi l’uso insistito dei puntini di sospensione e le ultime tre frasi in carattere maiuscolo a mo’ di «strillo» (nel gergo giornalistico, la breve notizia con titolo evidente che si mette in prima pagina per attirare l’attenzione). È un testo che fa pesca a strascico fra i potenziali pubblici cercando di acchiappare quanti più lettori possibile allargandosi a più temi ed aree di interesse: la suspense («un appuntamento mancato»), certi istinti pruriginosi che vanno sempre bene («una serata di poesia erotica»), la promessa di un giallo («l’investigatore privato»), la promessa di un thriller («fuga dal grattacielo di vetro»), qualche occhio strizzato a grandi temi («il finanziere e Dio», «teoria dell’abbandono»), a questioni sociali («generazioni») o a problemi più ombelicali ma non meno pressanti («l’infelicità domestica»). Lo “strillo” ha l’aggettivazione enfatica tipica della pubblicità, e ancor più della pubblicità anni Ottanta. Insomma, se vi vengono in mente queste cose qui non andate troppo distanti:

Il testo B è più vicino alla nostra sensibilità. È meno euforico (peraltro l’euforia era un modo dell’espressione che Pontiggia aborriva), e più articolato. Apre con una citazione dal romanzo che vuole solleticare l’interesse del lettore: «Poi cominciò ad avere paura. Non era mai arrivato in ritardo.» La sviluppa con un attacco quasi giornalistico – quando, dove, cosa – per poi espandere il valore del testo oltre le pure qualità affabulatorie della trama: non di semplice giallo si tratta, ma di uno scavo psicologico sulla storia «degli altri», di coloro che rimangono. La terza frase introduce l’autore (che nel testo A è assente perché nel testo A a vendere è soltanto la storia), collocando La grande sera all’interno del percorso letterario di Giuseppe Pontiggia («un ritorno alla sperimentazione»); si parla di «respiro compositivo», si parla di «struttura innovativa», si virgolettano le «“anime morte”» (allusione a Gogol), si adoperano cioè tutte quelle categorie descrittive capaci di incontrare l’interesse dei cosiddetti “lettori forti” se non addirittura dei lettori-scrittori, dai quali Pontiggia è considerato, oltre che autore, un maestro. In sintesi, il testo A ci propone una novità editoriale; il testo B ci propone l’opera di un Autore, uno scrittore che ha trovato un suo posto stabile nel canone della letteratura italiana del Novecento.

A cosa serve fare un discorso di questo genere? A circostanziare (non a ridimensionare!) la statura dei classici, che è certo una statura elevatissima per meriti intrinseci – meriti pertinenti al testo e solo al testo, come deve essere – ma che non può sottrarsi, nel giudizio che la sostiene e nel modo in cui questo giudizio viene proposto, da meriti estrinseci che concorrono per quanto poco a definirla. Il testo A è stato scritto per lanciare il libro di uno scrittore certo già affermato presso critica e pubblico (tre romanzi, una raccolta di saggi, una cinquina al Campiello e una cinquina allo Strega), ma non ancora ai suoi vertici. La vittoria allo Strega arriverà per l’appunto con questo libro e comunque Pontiggia non ha ancora pubblicato la sua opera a mio giudizio  più notevole – Vite di uomini non illustri, Mondadori 1993; né l’opera che gli farà ottenere il maggior successo di pubblico: Nati due volte, Mondadori 2000, tradotto in una ventina di paesi; né ha dato ancora forma definitiva alla sua opera stilisticamente più ambiziosa – L’arte della fuga, che uscirà completamente riveduta nel 1990 (sempre presso Adelphi), meritandosi stavolta larga attenzione («il primo, l’unico “poemetto poliziesco” che sia mai stato scritto» sarà il giudizio di Fruttero & Lucentini). Ha cominciato da pochi mesi, su invito di Severino Salvemini, a tenere un corso di scrittura creativa per docenti all’università Bocconi ma non è ancora il Maestro che noi tutti sappiamo e soprattutto è ancora vivo: non è stato cioè canonizzato dal sistema, sfondando il muro dell’oblio che sigilla le fosse della stragrande maggioranza degli autori defunti e sui quali Pontiggia stesso ha più volte ironizzato («Morì incompreso, tranne che da un amico. Poi fu incompreso in eterno.» dall’Arte della fuga).

Il testo B introduce a un Autore che è tutte queste cose, e non sono cose di poco conto. So che può sembrare una tautologia, un cortocircuito paradossale, ma anche un’opera immensa come la Divina Commedia è pur sempre un’opera scritta da un autore che ha saputo produrre un’opera immensa come la Divina Commedia.

Nella sua citatissima definizione per punti di che cos’è un classico (da Italiani, vi esorto ai classici, «L’Espresso», 28 giugno 1981; ora in Perché leggere i classici, Mondadori 1991), Italo Calvino diceva che «è classico ciò che tende a relegare l’attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di quel rumore di fondo non può fare a meno». Possiamo dare alla parola «attualità» due diverse collocazioni temporali: come attualità rispetto al tempo in cui l’opera poi diventata classico è stata prodotta – a indicarne il valore sovrastorico; e come attualità rispetto a noi che quei classici ora leggiamo. E li leggiamo anche perché l’attualità che ci si presenta come «rumore di fondo» ha deciso di ergere determinate opere e determinati autori sopra sé stessa considerandoli per l’appunto «classici»

Proviamo a cambiare ambito, ché a considerare le cose da fuori spesso le si vede meglio. Ora, guarderemmo noi ai dipinti di El Greco come li guardiamo oggi – come le opere di un prodigioso precursore della modernità – se tale Pablo Picasso non avesse dipinto Les damoiselles d’Avignon dopo aver visto, oltre che l’arte africana, L’apertura del quinto sigillo? O se Max Beckmann non vi si fosse rifatto per la sua terribile Deposizione dalla Croce? E Oskar Kokoschka per le sue tormentate rappresentazioni del corpo umano? Il «nostro» El Greco è El Greco e basta oppure è anche l’El Greco di Picasso, di Beckmann, di Kokoschka, di Cézanne, di Modigliani, di Matisse, di Duchamp, di Schiele, di Giacometti, di Pollock e di Bacon ossia di tutti quegli artisti modernisti e anticonformisti (il primo fu il Manet dell’Olympia e della Colazione sull’erba) che hanno tratto dalle nebbie del passato questo cretese reietto (perché in vita e fino a metà Ottocento El Greco artista se la passò tutt’altro che bene) in cerca di maestri altrettanto anticonformisti per ispirarsi e auto-legittimarsi?

I classici, è vero, concorrono a formare con il loro valore il gusto di noi contemporanei, ma siamo pur sempre noi contemporanei a decretare che il nostro gusto debba essere formato proprio da quei classici lì. Per riprendere la domanda del titolo – che cosa hanno i classici di diverso da noi? – la risposta è: sicuramente tante cose; e fra queste, il fatto che sono per l’appunto dei classici.

El Greco: La visione di san Giovanni, noto anche come La rottura del quinto sigillo.
Pablo Picasso, Les demoiselles d’Avignon
Max Beckman, La deposizione dalla Croce
Edouard Manet, Le déjeuner sur l’herbe

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Una opinione su "Ma, in definitiva, che cos’hanno i «classici» di diverso da noi?"

  1. Bellissimo articolo che mi ha invogliato a leggere opere di Pontiggia. Grazie.

    Il Mar 31 Ago 2021, 07:57 Bottega di narrazione – Corsi e laboratori di

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