Raccontare di cose che non esistono

di Giulio Mozzi
direttore della Bottega di narrazione

«A Wittgenstein piacevano i romanzi gialli, leggerli lo distraeva dalle sue profonde riflessioni. Per un filosofo che aspirava a spiegare tutti i problemi del mondo mediante la logica, una storia che propone un enigma, un omicidio o svariati omicidi, mettiamo, e che si sviluppa in base alle regole del caso e della deduzione, scartando piste false, procedendo per tentativi, indagando sui fatti e i presunti colpevoli, fino a trovare la soluzione e risolvere il mistero (questo è l’assassino e questa la ragione per cui ha commesso il suo delitto) doveva essere gratificante: ci sono una causa, un fine e un metodo; un romanzo giallo su una morte senza spiegazioni, che può essere stata un incidente o un suicidio o un omicidio (ma allora chi l’ha commesso e per quale motivo?) e non risolve l’enigma, ha il sapore di una frode o di una truffa, una storia assurda che non serve nemmeno da cornice o da soggetto per un brutto B-movie, di quelli in cui recitava Sandra Mozarovski». Così scrive Clara Usón (nella foto in alto) in L’assassino timido (Sellerio 2018, cap. iv), uno splendido romanzo che ricostruisce la breve vita appunto di Sandra Mozarovski o Mozarowski (1958-1977), attrice spagnola (il padre era russo, fuggito dall’Urss per motivi politici, e faceva il diplomatico) la cui carriera consistette quasi tutta in brevi apparizioni in film di serie B (prevalentemente sexy-horror nei quali appariva per lo più svestita e quasi inevitabilmente finiva sgozzata), e che morì cadendo misteriosamente da una terrazza.

Il romanzo di Clara Usón è assai bello, ovviamente la morte della ragazza rimane senza spiegazioni (o meglio: con troppe spiegazioni e con l’impossibilità di decidere per una di esse) ma il lettore non rimane insoddisfatto: perché si rende conto che tutto il possibile è stato fatto per togliere il velo al mistero, e che non c’è stata dunque truffa o frode, e perché ben presto lo conquistano la solidarietà e la pietà verso la giovane donna che nella Spagna ancora franchista (Francisco Franco morì nel 1975) e ufficialmente cattolicissima e bigottissima, «si guadagnava da vivere bene facendo film che scandalizzavano la sua famiglia», come scrive Usón.Ma torniamo a Ludwig Wittgenstein. Filosofo dall’intelligenza leggendaria («Il più perfetto esempio di genio che abbia mai conosciuto», scrisse Bertrand Russell nella propria autobiografia) e dalla vita romanzesca, autore di opere difficili e affascinanti, è noto a tutti se non altro per l’aforisma che chiude l’unica opera che pubblicò in vita, nel 1921, a trentadue anni, il Tractatus logico-philosophicus: «Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere». In realtà, dopo la pubblicazione del «Tractatus» Wittgenstein instancabilmente meditò – come dimostrano i numerosi manoscritti pubblicati dopo la sua morte – esattamente su ciò di cui non si può, o non si riesce a, parlare. Ed era, Wittgenstein, un vero appassionato di letteratura gialla: il che, a pensarci bene, sembra un po’ contraddittorio. E invece no. Le storie raccontate nei romanzi gialli (a lui piacevano soprattutto le storie «hard-boiled»: gialli deduttivi, sì, ma non asettici e quasi striminziti come quelli di Agatha Christie, bensì pieni di rappresentazioni realistiche del crimine, della violenza, e magari anche del sesso: roba «pulp», insomma) non sono «reali» (benché possano essere ispirate a fatti ed eventi reali, eccetera), ma ciò non impedisce loro di essere qualcosa «di cui si può parlare».

Quando, nella mia prima liceo (vi parlo del 1976 o giù di lì), il professor Renato Bortot entrò nell’aula per la prima lezione di filosofia (e noi eravamo, giustamente, piuttosto intimoriti dall’idea di studiare filosofia: io, per dire, sono ancora adesso terrorizzato dalla violenza argomentativa dei filosofi), aprì la porta e si mosse come se stesse spingendo avanti qualcuno: che non vedevamo. Poi si accomodò alla cattedra e disse: «Vi presento il mio elefantino rosa». Ce ne parlò a lungo, descrivendole l’aspetto e le abitudini (molto divertenti). E così imparammo, o almeno imparai io, e non mi scordai mai la lezione, che si può benissimo parlare di cose che non esistono – o delle quali non si sa se esistono o no: si tratti di elefantini rosa, di ruote celesti, di Dio, dell’Essere, dello Spirito, o dei personaggi di una storia inventata. L’importante è che la narrazione che se ne fa non sia una frode o una truffa: deve avere le proprie regole, e rispettarle. Un romanzo giallo può non portare alla scoperta del colpevole, può anche finire nel nulla – come certi romanzi di Friedrich Dürrenmatt, da lui giustamente raccolti sotto il titolo Un requiem per il romanzo giallo – ma non deve mai dimenticare di mettere in scena «una causa, un fine e un metodo».

Tutto questo per invitarvi a prendere in considerazione l’ipotesi, se avete voglia di scrivere un romanzo giallo (o noir, ec.), di iscrivervi al «Laboratorio annuale del giallo» della Bottega di narrazione, ideato e condotto da Massimo Cassani, autore di romanzi gialli e d’altri colori, e da Giovanni Zucca, traduttore professionista e specialista enciclopedico della letteratura del mistero e del crimine.

Il programma dettagliato del «Laboratorio annuale del giallo» è disponibile nel sito della Bottega di narrazione. Si comincia l’11 dicembre 2021. Le iscrizioni sono aperte.

Per informazioni: bottegadinarrazione@gmail.com.