di Giulio Mozzi
Qui si continua una riflessione sul mettere e l’omettere informazioni nei racconti: cominciata qui, proseguita qui.
In calce al secondo articolo una persona che si firma “Giulio” (e non sono io, eh!) ha proposto – come esempio di racconto che “funziona” grazie a una o più omissioni – un racconto di J. L. Borges, dalla raccolta L’Aleph. Lo riporto qui:
La casa di Asterione
So che mi accusano di superbia, e forse di misantropia, o di pazzia. Tali accuse (che punirò al momento giusto) sono ridicole.
È vero che non esco di casa, ma è anche vero che le porte (il cui numero è infinito)* restano aperte giorno e notte agli uomini e agli animali. Entri chi vuole. Non troverà qui lussi donneschi né la splendida pompa dei palazzi, ma la quiete e la solitudine.
E troverà una casa come non ce n’è altre sulla faccia della terra. (Mente chi afferma che in Egitto ce n’è una simile).
Perfino i miei calunniatori ammettono che nella casa non c’è un solo mobile. Un’altra menzogna ridicola è che io, Asterione, sia un prigioniero. Dovrò ripetere che non c’è una porta chiusa, e aggiungere che non c’è una sola serratura? D’altronde, una volta al calare del sole percorsi le strade; e se prima di notte tornai, fu per il timore che m’infondevano i volti della folla, volti scoloriti e spianati, come una mano aperta. Il sole era già tramontato, ma il pianto accorato d’un bambino e le rozze preghiere del gregge dissero che mi avevano riconosciuto. La gente pregava, fuggiva, si prosternava; alcuni si arrampicavano sullo stilobate del Tempio delle Fiaccole, altri ammucchiavano pietre. Qualcuno, credo, cercò rifugio nel mare. Non per nulla mia madre fu una regina; non posso confondermi col volgo, anche se la mia modestia lo vuole.
La verità è che sono unico. Non m’interessa ciò che un uomo può trasmettere ad altri uomini; come il filosofo, penso che nulla può essere comunicato attraverso l’arte della scrittura. Le fastidiose e volgari minuzie non hanno ricetto nel mio spirito, che è atto solo al grande; non ho mai potuto ricordare la differenza che distingue una lettera dall’altra. Un’impazienza generosa non ha consentito che imparassi a leggere. A volte me ne dolgo, perché le notti e i giorni sono lunghi.
Certo, non mi mancano distrazioni. Come il montone che s’avventa, corro pei corridoi di pietra fino a cadere al suolo in preda alla vertigine. Mi acquatto all’ombra di una cisterna e all’angolo d’un corridoio e giuoco a rimpiattino. Ci sono terrazze dalle quali mi lascio cadere, finché resto insanguinato. In qualunque momento posso giocare a fare l’addormentato, con gli occhi chiusi e il respiro pesante (a volte m’addormento davvero; a volte, quando riapro gli occhi, il colore del giorno è cambiato). Ma, fra tanti giuochi, preferisco quello di un altro Asterione. Immagino ch’egli venga a farmi visita e che io gli mostri la casa. Con grandi inchini, gli dico: “Adesso torniamo all’angolo di prima,” o: “Adesso sbocchiamo in un altro cortile,” o: “Lo dicevo io che ti sarebbe piaciuto il canale dell’acqua,” oppure: “Ora ti faccio vedere una cisterna che s’è riempita di sabbia,” o anche: “Vedrai come si biforca la cantina.” A volte mi sbaglio, e ci mettiamo a ridere entrambi.
Ma non ho soltanto immaginato giuochi; ho anche meditato sulla casa. Tutte le parti della casa si ripetono, qualunque luogo di essa è un altro luogo. Non ci sono una cisterna, un cortile, una fontana, una stalla; sono infinite le stalle, le fontane, i cortili, le cisterne. La casa è grande come il mondo. Tuttavia, a forza di percorrere cortili con una cisterna e polverosi corridoi di pietra grigia, raggiunsi la strada e vidi il Tempio delle Fiaccole e il mare. Non compresi, finché una visione notturna mi rivelò che anche i mari e i templi sono infiniti. Tutto esiste molte volte, infinite volte; soltanto due cose al mondo sembrano esistere una sola volta: in alto, l’intricato sole; in basso, Asterione. Forse fui io a creare le stelle e il sole e questa enorme casa, ma non me ne ricordo.
Ogni nove anni entrano nella casa nove uomini, perché io li liberi da ogni male. Odo i loro passi o la loro voce in fondo ai corridoi di pietra e corro lietamente incontro ad essi. La cerimonia dura pochi minuti. Cadono uno dopo l’altro; senza che io mi macchi le mani di sangue. Dove sono caduti restano, e i cadaveri aiutano a distinguere un corridoio dagli altri. Ignoro chi siano, ma so che uno di essi profetizzò, sul punto di morire, che un giorno sarebbe giunto il mio redentore. Da allora la solitudine non mi duole, perché so che il mio redentore vive e un giorno sorgerà dalla polvere. Se il mio udito potesse percepire tutti i rumori del mondo, io sentirei i suoi passi. Mi portasse a un luogo con meno corridoi e meno porte! Come sarà il mio redentore? Sarà forse un toro con volto d’uomo? O sarà come me?Il sole della mattina brillò sulla spada di bronzo. Non restava più traccia di sangue.
“Lo crederesti, Arianna?” disse Teseo. “Il Minotauro non s’è quasi difeso.”* L’originale dice quattordici, ma non mancano motivi per inferire che, in bocca ad Asterione, questo aggettivo numerale vale infiniti. [N. d. A.]
Due possibili lettori: il primo lettore
Presumo che questi lettori siano una minoranza. Io non lo sapevo (o l’ho dimenticato: magari a scuola l’avrò imparato, una quarantina d’anni fa), ma
– poiché sono un lettore carogna,
– poiché mi è noto che Borges spesso lavora al limite tra l’invenzione, la reinvenzione e il dato storico-filologico,
– poiché “Asterione” è un nome meno innocuo di, che so, “José” o “Emiliano”,
sono stato molto tentato di consultare l’enciclopedia prima di leggere il racconto.
Non l’ho fatto, per non barare con chi mi legge ora. Dovevo essere un lettore standard, non un lettore carogna.
Mi domando: l’avessi fatto, mi sarei rovinato la sorpresa? Presumo di no. Perché la “sorpresa” in questo racconto sta nella costruzione del personaggio – nel fare di un tradizionale mostro un personaggio malinconico -, non nella sua identità.
Il secondo lettore
Ho cominciato dunque a leggere. Ovviamente mi sono domandato subito chi fosse a parlare. Visto il nome, ho presunto che il personaggio appartenesse alla storia o alla mitologia antica. Penso che questa presunzione possa farla qualunque lettore.
Il guaio è che ho reagito subito ad alcune cose.
1. Dopo poche righe (non saprei dirvi esattamente quando) mi è venuto in mente un racconto di Franz Kafka: La tana (riassunto in Wikipedia). E la tana costruita dall’animale o uomo che parla in quel racconto ha tutto l’aspetto di un labirinto.
2. La casa viene descritta come dotata di “infinite porte” (o almeno quattordici…), e tuttavia a quanto pare il parlante ci vive solo, e nessuno vi entra. Mi sono domandato: come può essere inaccessibile una casa che ha moltissimi accessi, e sempre aperti? La risposta è ovvia (e sta nella logica del ribaltamento così frequente in Borges: che non ci parla di una casa dalla quale non si può uscire, come comunemente s’intende il Labirinto; bensì di una casa nella quale nessuno entra, pur potendo).
3. La casa è “come non ce n’è altre sulla faccia della terra”, e la citazione di una “simile” la fa il parlante, non il filologo-Narratore: ed è una citazione che ha il sapore inevitabile di una smentita (regola per leggere Borges: se di qualcosa si dice che c’è, non c’è; e viceversa – funziona quasi empre). Purtroppo proprio allora m’è venuto in mente il labirinto di Meride. Non so quando ho imparata questa nozione; fattostà che si è svegliata nella mia memoria (e ho controllato nell’enciclopedia, a questo punto).
Quindi: Borges ha omesso informazioni? Nossignori. Le ha messe tutte. Se noi abbiamo studiato poco, o abbiamo dimenticato quello che abbiamo studiato – problemi nostri.
Mettiamo che l’associazione di cui al punto 1, l’intuizione di cui al punto 2, la reminiscenza di cui al punto 3 – non ci fossero state. Avrei avuto altri indizi?
Risposta: sì, a palate.
Indizi a palate
4. Il parlante è un mostro. Lo dice lui, che gli altri lo considerano un mostro; e per di più un mostro sacro, da adorare o lapidare (l’unica – a quanto pare – volta che il parlante uscì per le strade, “la gente pregava, fuggiva, si prosternava; alcuni si arrampicavano sullo stilobate del Tempio delle Fiaccole, altri ammucchiavano pietre”.
5. “Mia madre fu una regina”: Pasifae, quella che s’innamorò di un toro e, per copulare con lui, si nascose dentro una vacca di legno appositamente costruita: ne nacque appunto il Minotauro.
6. “Non ci sono una cisterna, un cortile, una fontana, una stalla; sono infinite le stalle, le fontane, i cortili, le cisterne. La casa è grande come il mondo. Tuttavia, a forza di percorrere cortili con una cisterna e polverosi corridoi di pietra grigia, raggiunsi la strada e vidi il tempio delle Fiaccole e il mare. Non compresi, finché una visione notturna mi rivelò che anche i mari e i templi sono infiniti. Tutto esiste molte volte, infinite volte; soltanto due cose al mondo sembrano esistere una sola volta: in alto, l’intricato sole; in basso, Asterione”. Tipicamente borgesiano, questo passaggio non può che parlare di labirinti.
7. “Ogni nove anni entrano nella casa nove uomini, perché io li liberi da ogni male. Odo i loro passi o la loro voce in fondo ai corridoi di pietra e corro lietamente incontro ad essi. La cerimonia dura pochi minuti. Cadono uno dopo l’altro; senza che io mi macchi le mani di sangue”. Dei giovinetti sacrificati al Minotauro dovremmo ricordarci tutti, o quasi, dai tempi della scuola. Come si può uccidere senza macchiarsi le mani di sangue? Basta usare le corna…
8. “Cadono uno dopo l’altro; senza che io mi macchi le mani di sangue. Dove sono caduti restano, e i cadaveri aiutano a distinguere un corridoio dagli altri”: se c’è bisogno dei cadaveri per distinguere un corridoio dall’altro, non possiamo che essere in un labirinto.
9. “Come sarà il mio redentore? Sarà forse un toro con volto d’uomo? O sarà come me?”, ossia un uomo con testa di toro. Qui è tutto esplicito: d’altra parte, siamo quasi alla fine. Due righe dopo compare la parola “Minotauro”.
Che strategia ha usato Borges?
Quella che i saccenti usano con gli zucconi, direi. Prima butta là nel titolo una parola che ai più suonerà misteriosa (“Asterione”), poi comincia a raccontare dando prima gli indizi più difficili – quelli che richiedono un lettore più “enciclopedico” -, e poi man mano si avvicina, fino a diventare (dal n. 6 in poi, direi) addirittura esplicito.
Borges: “L’hai capito o no, che sto parlando del Minotauro?”.
Lettore: “Sì, sì, ho capito…”.
Borges: “Ma l’hai capita l’allusione a Pasifae?”.
Lettore: “Sì, sì…”.
Le nozze di Cana
Tre giorni dopo, ci fu una festa nuziale in Cana di Galilea, e c’era la madre di Gesù. E Gesù pure fu invitato con i suoi discepoli alle nozze. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: “Non hanno più vino”. Gesù le disse: “Che c’è fra me e te, o donna? L’ora mia non è ancora venuta”. Sua madre disse ai servitori: “Fate tutto quel che vi dirà”. C’erano là sei recipienti di pietra, del tipo adoperato per la purificazione dei Giudei, i quali contenevano ciascuno due o tre misure. Gesù disse loro: “Riempite d’acqua i recipienti”. Ed essi li riempirono fino all’orlo. Poi disse loro: “Adesso attingete e portatene al maestro di tavola”. Ed essi gliene portarono. Quando il maestro di tavola ebbe assaggiato l’acqua che era diventata vino (egli non ne conosceva la provenienza, ma la sapevano bene i servitori che avevano attinto l’acqua), chiamò lo sposo e gli disse: “Ognuno serve prima il vino buono; e quando si è bevuto abbondantemente, il meno buono; tu, invece, hai tenuto il vino buono fino ad ora”. (Vangelo secondo Giovanni, cap. 2).
Come per il vino in un banchetto, in un racconto è importante la gestione del rilascio delle informazioni. Tutto dovrà essere detto, ma bisogna decidere in quale ordine. Se si vuole guidare il lettore verso una “scoperta” (ossia una “sorpresa”), sarà bene potergli dire, alla fine:
Autore: “Allora, hai capito?”.
Lettore: “Sì, sì, ho capito”.
Autore: “Ma ti sei accorto che, in realtà, te l’ho detto fin dal princpio?”.
Lettore: “Ehm…”.
E’ ovvio che, in una seconda o terza lettura, la “sorpresa” dell’identificazione del personaggio non funziona più: non è più una sorpresa. Resta, invece, la meraviglia per la metamorfosi compiuta da Borges: il personaggio terrificante del Minotauro è voltato in qualcosa d’altro, in un qualcuno che aspetta solo il “redentore”. Perché, come cantava Mina, l’importante è finire.
E poiché col Minotauro ho pasticciato anch’io, beccàtevi questo racconto. Che non c’entra niente.

Io sono zuccona al quadrato perché, nonostante stia leggendo proprio in questi giorni le Metamorfosi, non mi ero accorta di nulla fin quasi alla fine (in mia discolpa dico che Ovidio il nome di Asterione non lo usa mai). Avevo intuito che si parlava di un labirinto ma la parola “Egitto” al terzo paragrafo mi aveva fatto immaginare i percorsi labirintici che, nelle piramidi, salgono in diagonale verso il centro. Pensavo dunque a qualcuno (divinità, semi-dio, umano) chiuso dentro una piramide e oppresso da una maledizione. La chiusura finale è stata dunque spiazzante (e poi ho dovuto rileggere ancora e ancora per apprezzare le varie sfumature).
E forse, Valentina, Borges voleva proprio indurre il lettore “non informato” in quell’errore lì.
Nessuno è tenuto a conoscere l’esistenza del labirinto di Meride, sia chiaro.
Ciascun lettore ha, per i motivi più svariati, le sue competenze: per me, per esempio, è assai più facile cogliere un’allusione biblica che una mitologica.
Quindi ciascuno di noi, a seconda dei casi, è “zuccone” o “esperto”…
Poco dopo aver letto il tuo post, Giulio, mi sono imbattuta nel racconto “Il mantello” di Buzzati, che si inserisce proprio tra le storie dove le informazioni vengono fornite a poco a poco 🙂
Il mantello di Buzzati si può leggere qui.
Cito un esempio che è forse puerile, ma che mi sembra incarni molto bene il ribaltamento finale con funzioni pedagogiche a cui tu, Giulio, accennavi. Negli anni Ottanta trasmettevano in tivù una serie animata dal titolo Baldios. Genere: fantascienza. La trama, molto stringata, è questa (ma si trova anche qui https://it.wikipedia.org/wiki/Baldios_-_Il_guerriero_dello_spazio): il pianeta Saul 1 (S1), primo pianeta di un sistema solare imprecisato, è devastato dall’inquinamento radioattivo. I suoi abitanti vivono nel sottosuolo. Si decide quindi di emigrare verso un altro pianeta, da colonizzare, se necessario, con la forza. Questo pianeta, facile immaginarlo, è la Terra. Seguono una trentina di puntate in cui i terrestri combattono contro gli invasori e in cui si approfondisce la psicologia di alcuni personaggi: la cattiveria dei cattivi comincia mostrare qualche smagliatura. La guerra, lunga e inconcludente, spinge gli abitanti di S1 a tentare il tutto per tutto: distruggono i pianeti Venere e Mercurio (la Terra si trova così a essere il primo pianeta del sistema solare) e sciolgono le calotte artiche, devastando il pianeta. Alla fine la Terra si ritrova a essere tal quale a S1. Anzi no, la Terra è S1: si scoprirà che il salto intergalattico attraverso lo spazio è avvenuto, in realtà, attraverso il tempo e che la Terra altro non è che il pianeta Saul 1 nel passato. La serie ha un forte contenuto ambientalista e in Italia andò malissimo (forse perché si discostava troppo dagli altri anime di robottoni: pochi combattimenti, troppa indagine psicologica, etc etc): venne interrotta prima della fine data la scarsità di ascolti.
L’ha ribloggato su Flavio Firmo's Blog.
Valentina: qualcosa di simile al Pianeta delle scimmie… (dico, come effetto di rovesciamento) (io ho in mente quello classico del 1968).
Flaviofirmo: grazie.
Vero Giulio, effettivamente è proprio lui…
Molto interessante l’articolo sul racconto “Sentinella”, sia per il discorso su una antropomorfizzazione che sicuramente mette in dubbio l’efficacia del racconto stesso sia perché dimostra che l’originale non era così “ingenuo” e la traduzione italiana, tenendo conto di ciò che la storia vuole dire, non è propriamente felice.
Sarei d’accordo anche sul fatto che alla terza lettura essa potrebbe non essere più così appetibile (infatti, da cultore di un certo tipo di sf, l’ho letto quando ero ragazzino ma adesso è da tanto che non lo rileggevo), ma mi domando questo quanto davvero conti: non è piuttosto vero che l’effetto sorpresa di quel racconto resta memorabile e indelebile (così come, per me, il finale de “Il pianeta delle scimmie” nella versione con Charlton Heston)? Non è altrettanto vero che si può sfidare chiunque a trovare un racconto che in così poche righe generi un analogo effetto “spiazzamento” nel lettore? E non è vero, per chiudere, che cose del genere fanno godere un lettore (nel senso “benigniano” del termine)?
Quanto conta realmente, allora, che poi un racconto del genere lo si tenga in biblioteca per non rileggerlo più?
(A suo tempo – almeno per me che amo questo tipo di effetto, e che trovo abbia qualcosa a che fare con il puro genio – ho goduto anche per “La casa di Asterione”… Mi chiedo se si possa chiamare “omissione” anche quella di un romanzo giallo: ho in mente il noto “L’assassinio di Roger Ayckroyd” della Christie.)
In effetti il tema del labirinto è così affascinate da avere indotto anche me a cimentarmi nell’impresa di scriverne, anche se, mi accorgo ora, con poca originalità.
Giusto per curiosità, la mia versione di labirinto è rintracciabile a questo indirizzo: https://www.facebook.com/media/set/?set=a.345191662320609.1073741840.317511905088585&type=1&l=5369646e01
scorrendo l’album
Paolo, non è poi male il tuo racconto.
L’idea dei piccoli terremoti che di tanto in tanto lo modificano è, devo dirlo, piuttosto buzzatiana. E interessante.
Ho una domanda e una proposta:
1. Di che cosa si nutre il personaggio-narratore?
La cosa, secondo me, non si può eludere. E potrebbe offrire spunti narrativi interessanti.
2. Sospetto che la narrazione al passato remoto (quindi: profferita da un qualcuno che parla di avvenimenti già avvenuti, già conchiusi) nuoccia alla storia. Forse un presente sarebbe più adeguato.
Ne L’Aleph di Borges, in cui il tema del labirinto è più volte trattato, vale la pena leggere almeno anche il racconto “I due re e i due labirinti”, altra piccola perla.
Giulio, sono davvero lusingato che abbia trovato il tempo per leggere il mio racconto.
Provo quindi a rispondere alle tue osservazioni:
0. Sì, amo molto Buzzati e la sua ispirazione è stata sia conscia che, sono convinto, inconscia.
1. Ho scelto di non occuparmi dei problemi pratici del protagonista per mantenere un’atmosfera metafisica (senza scostarsi da Buzzati, nel racconto “Le mura di Anagoor” il nostro non si preoccupa di dire di cosa vivano tanti pellegrini in un deserto).
Considerata la tridimensionalità che avevo stabilito per l’architettura, il primo problema che mi aveva dato filo da torcere era stato quello della luce, ma una fonte luminosa esterna avrebbe presupposto la presenza di qualcosa al di fuori del labirinto mentre una fonte luminosa interna, fosse anche stata una fiaccola, avrebbe presupposto la presenza o di un generatore o di un combustibile (albero). Infine il cibo avrebbe alterato la sensazione di solitudine totale poiché gli animali avrebbero costituito una sorta di compagnia e cosìavrebbe potuto accadere anche per le piante (che avrebbero comunque avuto bisogno di luce).
Mi piace inoltre pensare che nessun pensiero distolga il protagonista dalla sua ossessiva ricerca, nemmeno quello di cibarsi o di defecare,
2. L’uso del passato remoto mi pareva desse maggiormente l’illusione di storia “raccontata” e mi era funzionale a conservare nel lettore l’illusione che il protagonista avesse infine trovato una via d’uscita.
Il cambio al presente nell’ultimo pezzo mi pareva che acuisse la sensazione di “doccia fredda”.
Lo stesso espediente, mi accorgo adesso rileggendo il succitato racconto, era stato usato dal buon Buzzati (evidente esempio di ispirazione inconscia).
Cambiare il tempo non mi costa comunque molto ed è senz’altro un esercizio interessante che farò. Spero di riuscire poi ad avere uno sguardo abbastanza distaccato e “stupito” da poter fare un confronto lucido.
In ogni caso te ne manderò una copia, che naturalmente potrai anche non leggere visto che sarà, a quel punto, un’occupazione decisamente noiosa.
Nel frattempo ti ringrazio moltissimo per i consigli, che spero almeno in parte ripagati con quello della maggiorana nelle polpette.
A presto
Paolo, scrivi:
Ecco un link, per chi volesse leggere il racconto Le mura di Anagoor di Dino Buzzati.
Secondo me, la situazione è diversa. Buzzati “brucia” tutto il tempo (ventiquattro anni) in una sola riga. I pellegrini che aspettano fuori le mura sono sì nel deserto: ma sono all’aperto, liberi di muoversi e di avere rapporti con altri, abbastanza vicini ai centri abitati. Nulla vieta che ci sia un adirivieni di carovane, eccetera. Ci si arriva in dodici ore d’automobile (di un’automobile di quei tempi).
Invece nel tuo racconto il tempo scorre lentamente, quindi le faccende pratiche sono più sensibili; e il tuo prigioniero è, appunto, prigioniero. La luce non è un problema: pozzi di luce si possono facilmente immaginare (e si può facilmente immaginare che siano inaccessibili).
Ho la sensazione che se il tuo prigioniero trovasse ogni tanto del cibo, qua e là, misteriosamente collocato da una mano misteriosa, il mistero aumenterebbe. Se quel labirinto è un mondo, potrà esservi un (piuttosto bizzarramente crudele) creatore di quel mondo. Ovviamente non sarebbe necessaria nessuna spiegazione: il cibo si trova, e basta.
Se vuoi mettere il racconto da qualche parte, e poi mettere qui un link… (oppure lo mandi a me, e lo linko da qui).
Giulio, mi sono messo un po’ a meditare sui tuoi spunti cercando di capire come integrarli nel racconto in maniera plausibile e coerente, senza dimenticare la storia e la simbologia che avevao in mente di trasmettere al lettore.
Per chiarezza e risparmio di tempo la riassumo in breve.
La genesi del racconto è legata a una metafora che identifica il labirinto con le passioni della vita (amori, relazioni o qualunque cosa ci possa o ci si voglia vedere). Il protagonista è tormentato dall’incapacità di accontentarsi di ciò che ha ed è in perenne ricerca di qualcosa di più, qualcosa che gli possa trasmettere l’idea di trovarsi di fronte alla perfezione: la camera di cui non si percepiscono i confini, il rapporto (ad esempio) che non si avverte come troppo stretto. I terremoti rappresentano le contingenze della vita che modificano gli scenari chiudendo alcune strade, aprendone altre e rendendo talvolta impossibile tornare sui propri passi.
In questa ottica il labirinto è un mondo completo e non ha quindi senso parlare di prigioniero perché questo termine presuppone una prigione e, quindi, un mondo esterno che in questo caso è invece assente.
E’ stato questo punto di partenza che mi ha spinto ad abbandonare abbastanza presto e a cuor leggero la risoluzione dei problemi pratici.
D’altro canto, per mia limitazione spirituale, la presenza di un dio non mi è nemmeno venuta in mente.
L’introduzione degli aspetti pratici (luce, cibo, acqua, aria) in questo scenario presenta quindi una doppia sfida: la prima è quella di risolvere le questioni in modo coerente e plausibile mentre la seconda è quella di farlo in modo tale da non perdere la metafora, ma, anzi, di arricchirla.
D’altro canto mi autoimpongo un ulteriore vincolo nel preservare la solitudine e la mancanza di speranza del protagonista negandogli la presenza di un dio o comunque di una mano misteriosa che giunga in aiuto recando cibo.
Il messaggio che vorrei trasmettere è che non esiste speranza per placare questa sete se non l’accontentarsi di ciò che si ha abbandonandosi a un totale annichilimento (o abbrutimento per usare il termine dantesco).
Ora che ho delineato meglio (quantomeno a me stesso) i limiti del problema ti chiedo un parere: sarebbe eccessivamente ardito e inverosimile immaginare il protagonista non come uomo bisognoso di cibo, aria e luce bensì come animale che si orienta al buio e si ciba di se stesso?
Naturalmente andrebbero apportate modifiche nelle tecniche di orientamento e mappatura, ma credo che ciò non costituisca un grosso problema insormontabile.
Paolo, scrivi:
Prima di tutto non è una metafora ma un’allegoria. Ciò detto: un’allegoria funziona se, e solo se, la si può ammirare o leggere senza doverla interpretare di continuo (cioè senza pensare: “Ah sì, questo vuol dire questo, quest’altro vuol dire quest’altro”, ecc.). Poi: ricorda che al lettore interessa il racconto, non la sua genesi (quantomeno al lettore “normale”). Contano le realizzazioni delle intenzioni, non le intenzioni.
Ma il lettore conosce il mondo esterno. Non può, non può proprio percepire quello spazio come qualcosa di diverso da un “luogo separato” rispetto al mondo che lui conosce. A meno che tu non voglia rivolgerti a un lettore che stia nella medesima condizione del personaggio. Secondo me ce n’è pochi, e se anche ce ne fossero, nel loro “luogo” non ci sarebbero libri… 🙂
Macché speranza. Il “dio” o la “mano misteriosa” che fanno apparire al cibo possono essere, al massimo, dei sadici torturatori che garantiscono la sopravvivenza del personaggio per prolungarne il tormento.
(E’ un’allegoria). Le parole chiave sono: “ma, anzi, di arricchirla”. Tieni conto però di questo: l’allegoria “si arricchisce” se tu doti ogni elemento del racconto di un significato, ma “funziona” se (e, ripeto, solo se) il racconto si può leggere e comprendere anche senza coglierne la dimensione allegorica.
Per esempio: il racconto di Borges dal quale siamo partiti racconta più o meno la stessa storia di Un canto di Natale di Charles Dickens. Borges è allegorico, Dickens è morale.
Giulio, vorrei poter incolpare della confusione di termini la foga nel rispondere, ma temo si tratti ahimé di una sorta di analfabetismo di ritorno, se non addirittura di andata. 🙂
In ogni caso più che ragionare ancora intorno all’argomento ho preferito procedere a una nuova stesura tenendo conto di quasi tutte le tue indicazioni (per ora non meziono il problema della luce su cui ho intenzione di meditare ancora un po’).
Ti mando il racconto revisionato via mail scusandomi per non aver ancora trovato un modo per renderlo fruibile anche da chi non ha Facebook.
E naturalmente rinnovo i miei ringraziamenti per il tempo mi stai dedicando: ne sono davvero lusingato.
Per chi volesse capire di che diavolo stiamo parlando Paolo e io, ecco qui il Labirinto nella sua versione attuale.
Paolo, riporto gli inizi della prima e dell’ultima versioneo:
Il mio suggerimento era:
Ma il presente è una cosa; il passato prossimo un’altra. E comunque, fissato il “presente” della storia in un qualche momento (quello in cui il “concetto stesso di mondo” subisce un cambiamento: dove tu giustamente usi davvero il presente; e che coincide, direi, con il momento in cui il prigioniero trova un modo per mettere un segno nei punti nei quali è già passato), gli avvenimenti precedenti sono comunque precedenti; e per loro va il passato remoto.
Non so, forse non mi sono spiegato bene.
Pensa a come fa Buzzati nel racconto che tu hai citato, Le mura di Anagoor: il presente, che avvicina tutto e ce lo rende più evidente, arriva solo nell’ultima frase:
(Ah: mi scrivevi l’altro giorno: “non ha quindi senso parlare di prigioniero”, e mi rendo conto ora che fin dalla prima versione del racconto nella prima frase si legge: “imprigionato in questo labirinto”. 🙂 ).
Ecco. Io mi fermerei qui. Faccio solo qualche noterella di scrittura. Devi decidere se il tuo prigioniero sta parlando a qualcuno, ed eventualmente a chi. Perché formule come “bisogna tuttavia specificare”, e simili (ce ne sono qua e là) presuppongono, secondo me, un pubblico addirittura lì presente.
Attento poi agli scivoloni, del tipo:
– “acuire la confusione”: un grido sarà acuto, e magari anche un dolore; una confusione, me la vedo difficile. Il senso di base di confondere è “mescolare insieme, senza distinzione e senza ordine” (vedi l’etimo), e io fatico a immaginare una mescolanza indistinta e disordinata epperò acuta.
– “minuscolo atomo”: l’aggettivo potrebbe davvero servire se esistessero anche atomi grossi come galline: ma tutti gli atomi sono minuscoli.
– “imbattermi in luoghi”: “imbattersi” significa, alla lettera, andare a sbattere contro: ci si “imbatte” in una persona, in un muro, in un palo; in un luogo mi par dura.
– “largo camminamento, fitto di diramazioni”: se “fitto” vale, più o meno, “accalcato”, “stretto”, “senza spazi vuoti in mezzo”, “folto”, ecc., “fitto di diramazioni” mi pare improponibile.
Il modo in cui il tuo prigioniero parla è sempre leggermente burocratico, a volte un po’ pomposo: sei sicuro che sia la scelta migliore? Ci sono dei passaggi nei quali mi sembra di sentir parlare un impiegato del catasto:
Traduco in italiano-base:
E con ciò, Paolo, ti abbandonerei a te stesso.
Giulio, innanzitutto grazie di tutto questo lavoro: spero sia servito ad altri che leggono quanto a me (e magari ben di più visto che mi sa che sono un po’ zuccone).
Nella nuova stesura (Rev.01) ho deciso di tentare un cambiamento non solo nel tempo, ma nel concetto di narrazione: se la prima versione era una sorta di lettera di addio alla vita, la seconda è un diario che raccoglie però solo gli eventi più significativi, riassumedo in breve ciò che è intercorso nel frattempo.
Il fatto che non sia evidente come dovrebbe è segno che ho fallito e devo quindi inventarmi qualcosa che lo chiarisca… o abbandonare l’idea.
Grazie anche per tutte le altre note: l’aiuto di una persona che legge (già questo non è poco) con un occhio così attento è davvero impagabile.
A presto… ma naturalmente con un altro argomento!