Dieci scrittrici (alcune delle quali grandissime) che le aspiranti scrittrici italiane dovrebbero guardarsi bene dall’imitare

di giuliomozzi

Vedi anche: Dieci romanzi-capolavoro che gli aspiranti scrittori italiani devo assolutamente evitar di leggere

1. Virginia Woolf. Autrice di un certo numero di romanzi nei quali si chiacchiera moltissimo ma a stento si capisce chi parli di chi, e a proposito di quali vicende; nonché della biografia di un uomo che vive quattrocento anni nel corso dei quali diventa donna senza peraltro cambiare nome. Fu adorata dalla generazione di chi oggi ha sessant’anni, ossia da quella generazione che, pressata tra i sessantottini e i nerd, è riuscita a farsi mettere nel cul-de-sac del precariato e dell’irrilevanza politica e intellettuale. Il marito, ammirevolmente, amorevolmente, le dedicò la vita. Ciononostante morì suicida (lei, non il marito). L’amore non può proprio tutto.

2. Sylvia Plath. L’essere figlia di un entomologo non le impedì di voler diventare una scrittrice; l’essere moglie di un grande poeta (non grande quanto lei, secondo alcuni; più grande di lei, secondo altri) non le bastò per affermarsi (finché visse) come poetessa. La più grande demotivatrice (del tutto involontaria, sia chiaro) che sia mai apparsa sulla scena letteraria. Anch’essa morì suicida. Molti anni dopo il marito le dedicò un intero libro, considerato da alcuni un capolavoro (anche dell’amor coniugale) e da altri un monumento all’ipocrisia.

3. Emily Dickinson. Per quel che se ne sa, non uscì mai dalla sua stanza. Scrisse innumerevoli poesie (ma non aveva praticamente altro da fare) composte da pochi monosillabi e moltissimi trattini. Una vita difficilissima da imitare, tanto quanto la sua scrittura.

4. Gertrude Stein. Nacque ricca, e ricca rimase. Americana d’origine ebraica, visse prevalentemente a Parigi dal 1902 fino alla morte avvenuta nel 1946. Tenne a balia praticamente tutti coloro che dominarono artisticamente il Novecento, almeno in pittura e in letteratura: Picasso, Matisse, Braque, Pound, Hemingway, Sherwood Anderson – con una certa preferenza, in letteratura, per gli americani europeizzati. Fu lesbica, amò riamata Alice B. Toklas, ed entrambe ebbero il coraggio di vivere il loro amore alla luce del sole. Stein scrisse anche una mezza dozzina di capolavori che (almeno in Italia) nessuno più legge: tranne l’Autobiografia di Alice B. Toklas, così intitolato ma scritto dalla Stein, che viene letto quasi esclusivamente per ragioni extraletterarie (d’altra parte anche la Toklas, intellettuale tanto raffinata quanto la Stein, viene ricordata quasi solo per una sua ricetta: una specie di insalata di noci, frutta e marijuana).

5. Annie Vivanti. Figlia d’un italiano mazziniano e di una tedesca scrittrice con fratelli scrittori, nacque a Londra. In gioventù scrisse versi carducciani, che furono pubblicati con prefazione di Carducci (al quale Vivanti restò sempre commoventemente affezionata). Visse deambulando col marito irlandese tra Gran Bretagna, Svizzera, Italia e Stati Uniti d’America. Scrisse il suo romanzo di maggior successo, The devourers, in inglese; poi lo riscrisse in italiano. Ebbe successo, e fu famosissima tra le due guerre (la recensirono favorevolmente anche Benedetto Croce e Giuseppe Antonio Borgese, genero di Thomas Mann). All’inizio della seconda guerra le cose precipitarono. Il regime italiano le comminò il domicilio coatto. Nel 1941 la figlia violinista (era stata un enfant prodige, trent’anni prima) si suicidò. Vivanti morì nel 1942, a Torino, abbandonata da tutti e in miseria. Si ricordò di lei, negli anni Settanta, Cesare Garboli: ma anche Cesare Garboli oggi è morto.

6. Sibilla Aleramo. Ebbe una vita sentimentale disperatissima, affollatissima e catastrofica (poeti folli, atleti giovanissimi, attentatori di tiranni, ideologi paranazisti, futuri titolari di Nobel, eccetera). Si autodefinì “amante indomita”, fu prima antifascista ma poi fascista (forse nella speranza di ottenere una pensione: l’ottenne). Le sue opere letterarie, nella memoria nazionale, scompaiono dietro a quel feuilleton che fu la sua vita (parzialmente raccontata anche in un brutto film).

7. Elsa Morante. Figlia d’un padre che non volle prendersi la responsabilità di lei (ma un altro uomo la riconobbe come propria figlia) e che morì suicida, nel 1941 sposò lo scrittore più tirchio d’Italia, che in seguito dichiarò di averla amata senza essere mai stato innamorato di lei. Fu meritatamente famosissima. Nel 1983 tentò di suicidarsi, senza successo. Morì nel 1985, in ospedale, mentre il marito altrettanto e più famoso (dal quale si era separata nel 1961, pare dopo il suicidio di un amante di lei, senza mai divorziare) faceva pubblici appelli perché qualcuno la aiutasse economicamente.

8. Antonia Pozzi. Pronipote di Tommaso Grossi, manzoniano d’osservanza (autore del libro più venduto dell’Ottocento: il poema in ottave I lombardi alla prima crociata, dal quale l’opera di Verdi), studiò in Milano al Liceo “Alessandro Manzoni”. Scrisse moltissime poesie, tutte pubblicate postume. Morì suicida a ventisei anni (ma la famiglia, religiosissima, cercò sempre di negare).

9. Alda Merini. Nata in una famiglia “di modeste condizioni economiche”, come dicono pudicamente le enciclopedie, subì a ventun anni il primo internamento in Ospedale psichiatrico. Dal 1962 al 1972 vi risiedette quasi continuativamente. Stimata da tutta la comunità letteraria, e poi sparita dalla circolazione, diventò celeberrima e popolare a una certa età, riuscendo perfino ad avere un po’ di benessere economico. Dato il successo, la comunità letteraria la rigettò confinandola nel ghetto dei fenomeni. Ma poiché vendeva, le si spillarono libri in ogni modo (uno è composto addirittura di poesie che Merini dettò al telefono, probabilmente improvvisando là per là). Ancora oggi molto amata, tutta la sua opera viene letta come un riflesso della sua vita trasvagliata. Morì, pare, felice.

10. J. T. Leroy. Appena si scoprì che era una donna (a tradirla fu, forse per ripicca, il compagno di lei – ovviamente dopo la separazione), di lui non importò più niente a nessuno. La donna, Laura Albert, è stata condannata dieci anni fa a pagare un risarcimento di più di centomila dollari per aver firmato “J. T. Leroy” un contratto per la trasposizione cinematografica di un’opera pubblicata a nome di J. T. Leroy.

12 pensieri riguardo “Dieci scrittrici (alcune delle quali grandissime) che le aspiranti scrittrici italiane dovrebbero guardarsi bene dall’imitare

  1. Voglio dirlo e che tutti sentano: Giulio è il più bravo – non ho detto il Migliore perché quello, come si sa, non era democristiano.

  2. Tutte mie autrici del cuore, ho un debole per le autrici suicide. Sylvia sarebbe stata più grande se non avesse sposato quel narcisista perverso di Hughes (che tra l’altro ha fatto quell’effetto lì anche a un’altra sua donna, particolare interessante), bellissima la Pozzi, l’ho amata molto. Una donna di Aleramo, un libro che ogni donna dovrebbe conoscere. E via così. Io non mi suicido, Giulio. Ho smesso. Un bacio.

  3. Di sicuro da non imitare nel suicidio e anche per certe idiosincrasie, bizzarrie e arruffamenti di vita… ma volersi un po’ più di bene, accompagnarsi meglio e scrivere in serenità, no?

  4. So bene, e me ne dispiaccio per quel quid veterosessantottino che tanto ha sempre lottato – e ancora si ostina-, perchè fosse/sia, diversamente.

  5. Fatto. Letto anche il bando.
    Non le imitiamo poiché l’imitazione è per le scimmie, ma forse, fatta qualche naturale eccezione, la cifra che le accomuna è la profonda sofferenza e inquietudine. Forse non bisogna essere così attaccate alla vita per poterla raccontare bene…

  6. Naturalmente Giulio, ho citato i primati per questo. Sei forse tra coloro che suggeriscono di riscrivere intere pagine di autori notevoli al solo scopo di impararne la tecnica? Non mi pareva, ma posso essermi sbagliata. Un metodo che non ho mai applicato per pigrizia ma che potrebbe avere il suo perché…
    Ma soffermiamoci un momento sul concetto di imitazione: senza scomodare il Devoto-Oli, imitazione a me fa venire in mente emulazione, desiderio di essere riconosciuti nello stesso ambiente o contesto in cui l’oggetto dell’imitazione è inserito, ben inserito. Applicandolo alla letteratura, l’autrice esordiente imita lo stile, la tecnica, persino i temi di un romanzo di grande successo e poi? Dov’è finita lei? Da nessuna parte, perché l’originale è sempre meglio della copia. O no?
    Abbracci
    PS: Leggi i commenti sui tuoi video Yuotube?

  7. No, sono tra coloro che suggeriscono di copiare intere pagine di autori amati perché la copiatura è una forma di “lettura in profondità”.
    Imitare per emulare, nel senso che indichi tu, è una cosa che non m’interessa (conosco fin troppe persone che “posano”), imitare per apprendere è un’altra cosa. Tutto quello che so, o quasi, lo so perché ho imitato. A partire dalla lingua, come tutti.
    Naturalmente c’è un momento nel quale la fase dell’apprendimento finisce, e comincia quella del lavoro individuale.

    In Youtube arriva un commento ogni sette mesi, difficile seguire.

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