di giuliomozzi
[Qualche giorno fa pubblicai un articolo intitolato Dieci frasi indimenticabili veramente sentite dire da editor delle case editrici più famose, nel mentre si discuteva di un romanzo da pubblicare o non pubblicare. Le frasi “veramente sentite dire” sono ovviamente tutte inventate; ma ciascuna di esse cerca di descrivere sinteticamente una questione reale. Poiché c’è stato, mi pare, qualche fraintendimento, propongo qui una serissima (e noiosissima) spiegazione frase per frase].
1. “Questo è un romanzo normale, capisci, che parla di gente normale con problemi normali, e si rivolge a dei lettori normali perché normalmente ci si riconoscano. Ma oggi stiamo tutti fuori di testa, non va bene”.
Pensate ai reality show. La “televisione della gente comune”, si sarebbe detto qualche anno fa. La “messa in scena del quotidiano”, si sarebbe detto ancora. Ma ormai è chiaro: altro che gente normale, quella che si ficca nei reality show è gente fuori di testa, e nessuno guarda Grande Fratello e succedanei per vedere della “vera vita quotidiana”. I reality show sono una specie di versione volontaristica di Paperissima. La normalità non interessa (più) a nessuno. E l’escalation è continua: ormai non basta più che un uomo morda un cane, deve morderne almeno dodici.
2. “Tutte queste scrittrici erotiche qui fanno delle trilogie, ma perché quest’altra qua ci propone una tetralogia? Ti rendi conto? Glielo spieghi poi tu, al marketing?”.
Sinceramente: non mi è chiaro perché quelle “erotiche” (metto le virgolette perché, questi romanzi, a me, quell’effetto lì non lo fanno per niente; conciliano il sonno, sì) debbano essere regolarmente delle trilogie (come quelle fantasy). Il punto è che un formato è un formato è un formato, e quando hai che fare con un pubblico che compera più un formato che un’opera, devi dargli il formato. Altrimenti ciccia.
3. “E’ scritto benissimo, ed è il classico capolavoro testamentario di un grande scrittore. C’è tutto: l’infanzia al paesello, l’allontanamento dalla famiglia, l’esperienza della gande città, i viaggi in terza classe, i primi amori, la guerra, il boom economico, la scoperta della scrittura, il matrimonio, la pubblicazione, la fama, il secondo matrimonio, i viaggi all’estero, il terzo matrimonio, la scoperta – in vecchiaia – di essere stato molto più stronzo della maggioranza degli umani, l’autoassoluzione in nome dell’arte. In sostanza: cinquecento pagine di meravigliose pippe. Non possiamo non farlo, ma sarà un bagno di sangue”.
Qui spero non servano spiegazioni. Immaginatevi, per esempio, un Marcel Proust sopravvissuto a sé stesso che, onusto di gloria e premi letterari, si mette novantenne a raccontare tutta la sua vita vera, compresa (naturalmente) quella già narrata (ma trasfiguratamente) in À la recherche du temps perdu. Un capolavoro, probabilmente, ma da spararsi a leggerlo.
4. “Ma questo qui, è la seconda o la terza volta che esordisce?”.
Per esempio: Donatella di Pierantonio, fresca vincitrice del Premio Campiello, è stata da molti percepita come un’esordiente; mentre prima de L’arminiuta presso Einaudi aveva già pubblicato – vado a memoria – almeno altri due romanzi.
Ci sono poi certi autori che esordiscono, fanno il secondo libro, magari il terzo, ma non riescono mai a farsi percepire veramente come “autori”. E così, la domanda potrebbe essere riformulata: “Ma questo qui, ce la farà stavolta, con ques’opera qui, a conquistarsi lo statuto di ‘autore’?”.
5. “A prima vista sembra una parodia di Baricco, ma invece no, questo scrive come Baricco sul serio, quasi meglio”.
Almeno un terzo delle opere inedite che arrivano in una casa editrice (o, come nel mio caso, sul tavolo di un consulente) appare fortemente segnato dall’imitazione. In qualche caso imitazione ingenua e consapevole, in altri casi imitazione consapevole e determinata. Ora, non è che sia sbagliato pubblicare degli epigoni, se sono bravi. Francesca Manfredi, per esempio, ha esordito presso Feltrinelli con Un buon posto dove stare: epigonismo carveriano spinto, fin dal titolo. Ma bisogna accettare il fatto che un’opera può essere epigonale e insieme molto bella (è il caso di Francesca Manfredi), e che comunque per scrivere come Carver bisogna essere molto, molto bravi.
6. “Due cose: la fantascienza è un genere morto, e la fantascienza romantica è un genere che non è neanche mai nato. Quindi questo qui, o ci sposta la storia – che come storia ha tutti i suoi perché, non lo nego, con tutti i suoi temi della diversità, della difficoltà di amare uno che ha meno squame e più tentacoli di te, eccetera – dal suo tremila e rotti a un tempo più decente, o nisba”.
Succede spesso di leggere delle storie belle, umanamente interessanti, anche commoventi o divertenti, guastate dalla scelta di un’ambientazione esotica. E ti si spezza il cuore, a volte, a dover dire all’autore: butta via i tre anni che hai passati a studiarti la vita della corte di Federico II, e raccontaci questa meravigliosa storia d’amore. (Senza contare che, a volte, i tre anni passati a studiare la vita della corte di Federico II non ci sono stati; c’è stato qualche giretto in Wikipedia, al massimo; e davvero la storia si potrebbe spostare non solo senza alcun danno, ma con grande guadagno).
Per il resto: sì, in letteratura la fantascienza è un genere morto. Magari risorgerà. Non oggi, comunque.
7. “Sembra I promessi sposi. E’ uguale. E’ perfino scritto bene, e vagamente cattolico. A me fa schifo. Dìtegli che ci provi con Mozzi”.
Eh sì. In Inghilterra si santificano le nipotine di Jane Austen, in Italia a esser manzoniani si ha la vita difficile. Certo: i romanzi “perfetti” di Austen sono molto più grandi, artisticamente, e hanno influito molto di più, storicamente, dell’unico e non “perfetto” romanzo di Manzoni. Fattostà che qualunque sentore di “letterarietà”, in certe case editrici, fa storcere il naso. Senza contare i pregiudizi contro quei cretini dei cattolici che credono a tutto quello che dice il Papa, anche se il Papa dice tutto e il contrario di tutto.
8. “Questa si è fatta, nell’ordine: una cosa a distanza con la Cilento, per cominciare, il master della Holden di due anni, due seminari residenziali in alta montagna senza né pane né acqua con Vasta, una roba che non si capisce a Otranto, e adesso sta alla Bottega di narrazione. E con tutto questo ci fa un romanzo assolutamente standard, standardissimamente autobiografico, con i soliti errori standard e le solite buone intenzioni standard. O è una capra, o ‘ste scuole qui di scrittura sono veramente delle cioféche”.
Ci sono persone alle quali le scuole di scrittura dovrebbero dire, semplicemente: no, basta.
9. “E’ bello, bellissimo. Ma non ha nessun’altra qualità”.
Provate a telefonare a un giornalista di cultura e dirgli: “Abbiamo pubblicato un romanzo, molto bello”. Non gliene importerà nulla. Risponderà: “Sì, ma di che parla?”. E voi direte: “Ci sono lui e lei, che si amano, ma ci hanno dei problemi, poi c’è uno che si mette in mezzo, ma non è quello il punto”. Il giornalista: “La storia fa cagare. C’è almeno un ‘gancio’, un qualcosa che permetta di parlarne?”. Voi: “No, non ci sono legami con l’attualità o cose simili, è la classica storia di provincia, di quella provincia dove non succede mai niente, ma è un capolavoro…”. Il giornalista vi sbatte il telefono in faccia.
Non è importante che un’opera sia bella. E’ importante se è “comunicabile”. E un’opera è comunicabile se ha una storia avvincente (ma raccontabile in 22 secondi, al telefono) e se ha un qualche “gancio” con l’attualità.
10. “Per tutta la vita ho sognato di imbattermi in un vero capolavoro, un libro che duri per sempre. Ma adesso che ce l’abbiamo, ne siamo tutti convinti, un capolavoro, mi rendo conto che pubblicarlo sarà un incubo, e che io sono troppo vecchio per pensare cose del tipo «per sempre»”.
Credo che le precedenti nove spiegazioni spieghino anche troppo pure la decima frase.
[E se avete avuta la pazienza di leggere fin qui, magari potreste farmi anche la gentilezza di dare un’occhiata al bando del Corso fondamentale di narrazione, che si terrà nei primi mesi del 2018 a Milano e a Cagliari. Grazie].
Le cipolle sono di Édouard Manet.
Ciò che fa male, più di ogni altra cosa, è il disprezzo.
Perché dici che la fantascienza è letterariamente morta?
Sono d’accordo, Nadia.
Swann: per la precisione, ho scritto che “la fantascienza è un genere morto”, intendo ovviamente “genere letterario”. “La fantascienza è letterariamente morta” mi pare una frase che vuol dire tutt’altro.
Comunque: ti rimando a un articolo di Jonathan Lethem, La promessa sprecata della fantascienza. Dove si spiega come il cadavere del genere letterario fantascientifico, disfacendosi, ha fecondato altra letteratura.
(Nota: rispondendo, poco fa, a una domanda sui tre libri “più importanti” della mia vita, ce ne ho messo uno di fantascienza. Per questo penso che la fantascienza, per quanto morta come genere letterario, sia letterariamente viva: può fecondare).
Appena ho inviato il commento, ho pensato “adesso il Mozzi mi contesta il ‘letterariamente’ “. Vado a leggere l’articolo (e comunque, recuperando la discussione su facebook, ho notato che la morte della fantascienza ha generato più di un commento – forse non siamo in pochi ad aspettare che risorga)
Visto che si parla di fantascienza: al di là dei validi motivi letterari proposti da Lethem, la fine della fantascienza coincide con la fine della “corsa allo spazio”, cioè della guerra fredda (non è un caso che l’ultima ondata “forte” della fantascienza sia il cyberpunk, che si estingue con la fine degli anni 80). Dopo, l’ “altrove” letterario trova accoglienza nel fantasy, genere tutt’altro che morto (il celebrato Game of Thrones non è forse una versione pseudomedievale di quelle belle saghe fantascientifiche come quella di Dune o dell’impero asimoviano? Scritta (e recitata) forse meglio, ma quanto più povera di spunti di riflessione storica/filosofica/sociologica…)
Ops, ho pensato che le cipolle fossero fichi secchi….