di Massimo Cassani
romanziere, docente della Bottega di narrazione
Ma è stato davvero un incidente o, al contrario, un atto deliberato – seppure istintivo – quello che costa la vita a Myrtle Wilson, personaggio minore, ma fondamentale in un particolare snodo de Il Grande Gastby, uno dei romanzi simbolo dell’età del jazz, di Francis Scott Fitzgerald?
A ottant’anni dalla morte dello scrittore e sceneggiatore statunitense (Saint Paul, Minnesota 1896 – Hollywood 1940), può essere interessante notare che fra le pagine del romanzo si cela un inesplorato “giallo” o, per dirla in altro modo, un piccolo “punto cieco”, utilizzando la definizione cara allo scrittore e docente universitario spagnolo Javier Cercas (Il punto cieco, Guanda, 2016, traduzione di Bruno Arpaia).
Il “punto cieco”, in letteratura – come spiega lo stesso Cercas nel prologo all’omonimo saggio – «è una domanda, e tutto il romanzo consiste nella ricerca di una risposta a quella domanda centrale; al termine della ricerca, però la risposta è che non c’è risposta, cioè, la risposta è la ricerca stessa della risposta, la domanda stessa, il libro stesso».
E dunque, seguendo questa logica, la domanda dell’incipit è forse destinata a restare senza risposta, ma è proprio questa ricerca a offrire il pungolo a leggere (o rileggere) una delle opere fra le più note – insieme a «Tenera è la notte» – di Fitzgerald a ottant’anni dalla scomparsa.
Myrtle Wilson è un personaggio minore, si diceva, ma l’incidente automobilistico di cui è vittima è uno dei momenti clou che fanno scollinare il romanzo e lo conducono su un piano inclinato verso la tragedia con l’assassinio del protagonista, Jay Gatsby, per mano del marito di Myrtle (il quale subito dopo si suicida). Le dinamiche dell’episodio andrebbero forse indagate più con spirito da detective che da critici letterari, ricercando le contraddizioni di fondo che sorreggono i dubbi sull’incidente nelle parole dello stesso Gatsby, testimone oculare dell’incidente.
L’intreccio dei rapporti fra i personaggi è così sintetizzabile. Jay Gatsby – il cui nome originario è James Gats, nato in una umile famiglia contadina del Nord Dakota – da giovane vive una intensa storia d’amore con la bella e ricca Daisy. La coppia però è costretta e separarsi a causa della guerra, Gatsby parte per l’Europa e Daisy sposa il ricco, rozzo – e impenitente fedifrago – Tom Buchanam, già celebrato campione di Polo. Tornato dal fronte, l’obiettivo esistenziale di Gatsby è duplice. Il primo, dare avvio a quella scalata che l’avrebbe portato al medesimo livello sociale dell’antica fiamma; il secondo, come conseguenza, riconquistare Daisy, a tutti i costi. Grazie a intrallazzi ben oltre il codice penale, il primo traguardo viene brillantemente raggiunto e attraverso il disinteressato aiuto di un vicino di casa – Nick Carraway, voce narrante del romanzo e cugino di Daisy – anche il secondo. Gatsby e Daisy diventano amanti.
Siamo nell’America fra le due guerre (il romanzo è ambientato nel 1922), le brutture del primo conflitto bellico mondiale sono alle spalle e delle tragedie della grande Depressione e del secondo conflitto che avrebbe investito tre continenti nessuno può avere contezza. I calici colmi di champagne sono scintillanti e le orchestre che allietano le magnifiche feste organizzate nella fastosa villa di Gatsby inebriano i viveur con i nuovi ritmi nati e germogliati in quel meltingpot di New Orleans che fu culla il jazz. In sottofondo, un’inspiegabile mancanza di senso, di decadenza, di inutilità del vivere.
È in questo clima di pulsioni contrapposte che matura la resa dei conti fra Gatsby e il marito di Daisy, Tom. In una torrida stanza d’albergo di New York – affittata per cercare di uccidere la noia di pomeriggio troppo caldo e troppo lungo – va in scena il primo atto del dramma, che poi sfocia nello “strano” incidente, il “punto cieco” al quale probabilmente sarà impossibile dare una risposta definitiva, ma, appunto, dal quale lasciarsi interrogare.
Sul palcoscenico di quella stanza si muovono quattro personaggi: i due contendenti (Gatsby e Tom), la donna contesa (Daisy), il testimone-voce narrante (Nick) e l’affascinante campionessa di Golf, Jordan Baker (al momento fidanzata di Nick). Tom rinfaccia a Gatsby i suoi torbidi trascorsi – non del tutto trascorsi, per la verità – malavitosi; mentre Gatsby rivela a Tom il suo amore e il suo rapporto con Daisy. Risultato: un litigio senza esclusione di colpi che vede l’uscita di scena di Gatsby e Daisy e la fuga in macchina verso un qualche altrove. Daisy è alla guida, Gastby al suo fianco. Ed è proprio durante questa folle corsa che avviene l’incidente. Una donna (Myrtle Wilson, amante più o meno segreta di Tom) sospettata dal marito – per altro, a ragione – di intrattenere un rapporto extraconiugale, riesce a evadere da casa dove era stata richiusa per punizione. Nella disperata fuga a piedi, attraversa all’improvviso la strada sulla quale stanno sopraggiungendo a elevata velocità Gastby e Daisy e, in senso contrario, un’altra autovettura. L’impatto della macchina guidata da Daisy contro Myrtle è violento e quest’ultima muore sul colpo.
Sulla scena non è presente Nick (la voce narrante/testimone) e dunque la dinamica è raccontata – a lui e a noi lettori – dallo stesso Gatsby. Le parole del protagonista sono fondamentali. Dice infatti Gatsby: «È successo tutto in un momento, ma mi parve che volesse parlarci (Myrtle Wilson, le vittima, nda), come se ci avesse presi per qualcuno che conosceva». E prosegue: «Be’, prima Daisy ha sterzato verso l’altra macchina per scansare la donna e poi ha perso la testa e ha sterzato di nuovo».
Che curiosa testimonianza, a rileggerla meglio, e che atipica dinamica, per come ci viene riportata. In tutto il romanzo non vediamo che Myrtle abbia mai incontrato e conosciuto Gatsby; e in tutto il romanzo non vediamo che Daisy abbia mai incontrato e conosciuto l’amante del marito. Daisy sa – non solo sospetta, sa – che Tom intrattiene un rapporto clandestino (assistiamo anche a una scenata sul tema, durante una cena, nel primo capitolo del romanzo), ma che conosca Myrtle, no, questo non ci viene detto. E allora come mai Fitzgerald, attraverso le parole del suo protagonista sottolinea che la vittima: «parve che volesse parlarci, come se ci avesse presi per qualcuno che conosceva»?
Da questa affermazione si dovrebbe dedurre che Myrtle, nella sua disperata fuga, stia cercando aiuto in persone per lo meno note. La donna è la moglie di un garagista, difficile pensare sia una habitué delle sfavillanti feste nella villa di Gatsby (neppure Tom, il suo amante, le ha mai frequentate insieme al lei; lo ha fatto solo una volta, con la moglie, però, dopo che Daisy e Gatsby si sono rincontrati a distanza di anni). Eppure Myrtle si comporta come se: «ci avesse presi per qualcuno che conosceva».
Ma l’apparente incongruità del racconto non finisce qui. Torniamo alle parole di Gatsby: «prima Daisy ha sterzato verso l’altra macchina per scansare la donna e poi ha perso la testa e ha sterzato di nuovo».
Se proviamo a immaginarci la scena, vediamo due auto che corrono sulle corsie opposte, una delle due è costretta a sterzare per evitare una donna che sta attraversando come un fulmine e poi controsterza. Ma perché controsterza? Per evitare l’impatto con l’altra auto, verrebbe da pensare – mossa istintiva e legittima dettata da spirito di autoconservazione – e invece no, Gatsby dice un’altra cosa; dice che Daisy «ha perso la testa», non per «evitare un disastroso frontale», come sarebbe stato più logico. La testa, Daisy, l’avrebbe persa se non avesse controsterzato. Facendo così, invece, mette in salvo se stessa e chi le sta accanto, pur uccidendo Myrtle (mors tua, vita mea…).
Qui non siamo di fronte all’acerbo manoscritto di un esordiente o a un’opera di serie B per cui gli eventi possono capitare anche per caso – l’importante che facciano effetto – o a dialoghi buttati lì alla bell’e meglio tanto per mettere la parola fine al racconto. Al contrario, siamo di fronte a un’opera nel cui titolo campeggia l’aggettivo “grande” riferito al protagonista, ma anche – per estensione – al romanzo stesso, fra i più celebrati della letteratura americana. Legittimo, dunque, farci stimolare da questo “punto cieco”, da questa domanda senza risposta: è stato davvero un incidente? E anche: Gatsby ha detto la verità?
In un processo imbastito su prove puramente indiziarie, un pubblico ministero – uscendo dal perimetro della narrazione – potrebbe insinuare che Daisy, in realtà, abbia riconosciuto a colpo d’occhio la donna in fuga nell’amante del marito (incontrata quando? dove?) e abbia colto l’occasione – dopo tanti bocconi amari che è stata costretta a inghiottire – per toglierla di mezzo, nella fortuita e cruenta circostanza che abbiamo visto. Certo, Daisy non poteva immaginare che Tom avrebbe raccontato al marito della vittima che alla guida dell’auto non c’era lei, ma Gatsby, facendolo così involontariamente salire sul patibolo. Ma la vendetta, si sa, rende ciechi e irragionevoli, e non ci fa pensare alle possibili conseguenze dei nostri gesti.
Chissà quale sarebbe la sentenza di un giudice.
Un’ultima curiosità: il garagista, marito di Myrtle, si chiama Wilson, proprio come Edmund Wilson, critico letterario, scrittore e poeta, che diventò amico di Francis Scott Fitzgerald durante il periodo universitario a Princeton. Un caso? Un omaggio?
(Si è fatto riferimento alla traduzione di Fernanda Pivano per l’edizione Einaudi del 2001. L’immagine sopra il titolo è da una vecchia edizione Oscar Mondadori).
In quanto narratore interno alla storia, non onnisciente, Nick può dirci solo quello che vede, che ricostruisce o quello che gli altri personaggi gli dicono, non quello che pensano, provano e sanno, tanto più che li conosce da così poco. Tutti i personaggi, poi, hanno una consapevolezza di sé e degli altri molto parziale e sono poco lucidi, perché, più che agire liberamente, sono agiti da pressioni sociali ed economiche, dall’alcool, da desideri e pulsioni che non controllano o dall’assenza di desideri e pulsioni, che li blocca. In più, quasi tutti i personaggi hanno dei segreti e mentono o omettono dettagli importanti. Per questi motivi, mi sembra plausibile che Daisy possa sapere che la donna che le compare davanti all’improvviso è l’amante di suo marito senza che il lettore necessariamente lo sappia. Molto più inverosimile è il fatto che Myrtle, scappando di casa, si trovi di fronte un’auto guidata proprio dalla moglie del suo amante. Resterebbe da capire, poi, perché Daisy, dopo averla inizialmente schivata, la investe (dopo tutto, anche lei tradisce il marito con Gatsby, il suo matrimonio non è felice, non si capisce perché dovrebbe prendersela con Myrtle, ammesso che l’abbia riconosciuta). La zona cieca nel romanzo non è, secondo me, semplicemente nella scena dell’incidente, è molto più estesa: è in ogni personaggio, è nella loro vita. È bello lasciarsi trasportare dalla scrittura ipnotica di Fitzgerald senza aspettarsi spiegazioni. Tanto qualsiasi tentativo di approfondimento logico, ci respingerà, inevitabilmente, in superficie. Un po’ come galleggiare, morti, sull’acqua di una piscina.
Bello il riferimento alla piscina. Non casuale, deduco. Grazie.
Non credo che Fitzgerald abbia voluto contemplare la possibilità di un atto deliberato nell’incidente, e credo anzi che l’abbia espressamente voluta escludere. Ma andiamo per ordine. Myrtle Wilson corre incontro alla macchina di Gatsby perché crede che sia quella di Tom. Fitzgerald ha introdotto lo scambio delle macchine e la fermata di Tom al garage e la fantastica scena di gelosia da dietro le tende della finestra proprio per rendere credibile la corsa di Mirtle verso la morte. Non solo Gastby dice “sembrava che volesse parlarci, come se ci avesse presi per qualcuno che conosceva” ma anche Michaelis “lo aveva notato” (che “lei è corsa fuori a parlargli”). Al contrario di Myrtle, Daisy è del tutto inconsapevole. Non ha la più pallida idea di chi viva nel garage, perché dovrebbe voler togliere di mezzo qualcuno che non conosce? Ma soprattutto: è l’intera storia che ruota intorno alla semplice e terribile inconsapevolezza di Daisy su tutto ciò che Daisy fa, oltre a ciò che non fa. “Daisy… come se capisse finalmente ciò che stava facendo, come se per tutto quel tempo non avesse mai pensato di fare realmente qualcosa”. Daisy è sbadata: “Erano gente badata, Tom e Daisy: sfracellavano cose e persone e poi si ritiravano nel loro denaro o nella loro ampia sbadataggine o in ciò che comunque li teneva uniti, e lasciavano che altri mettessero a posto il pasticcio che avevano fatto…”. In sostanza, Daisy si caratterizza attraverso l’inazione, ed è la sua inazione che muove la storia e spinge Gastby verso la morte. Quattro volte: quando smette di aspettare Gatsby e sposa Tom (con la splendida immagine della lettera che si scioglie nell’acqua mentre le perle di Tom le cingono il collo), quando torna per la seconda volta da Tom durante la crisi del Plaza, quando si sottrae dal dire a Tom che stava guidando la macchina di Gastby, e quando si sottrae alla chiamata di Gatsby il giorno dopo l’incidente e non lo avvisa dei rischi che corre.
Grazie dell’articolo e di tutti gli spunti.
Grazie a te per la minuzia. Se non ho letto male il tuo post, rimane però aperta la strana dinamica dell’incidente per come (ci) viene raccontata: Daisy avrebbe perso la testa e quindi sterza evitando l’auto che corre in senso contrario e investendo Myrtle…perché Gatsby dice che avrebbe perso la testa? Ha fatto (tragicamente) ciò che era “giusto” fare…o c’è dell’altro non presente nel perimetro della narrazione?