di Valentina Durante.
Questa foto ha segnato la mia adolescenza.
E quella, credo, di molti altri della mia generazione.
In un pezzo molto bello uscito per Esquire, Demetrio Paolin la racconta così:
“La foto riprende l’interno di una rimessa; a terra c’è un corpo, di fianco un uomo accovacciato. Del corpo a terra vediamo giusto la gamba, avvolta nei jeans, e una scarpa, riconosciamo la marca: è una Converse. Se mi ricordo bene le scarpe sono di colore verde (non ho controllato le foto, ne ho una nel mio pc che è in bianco e nero, ma nel mio ricordo è verde, un verde scuro, forse il tutto è visto tramite i colori scadenti che avevano le televisioni a colori in quegli anni).
Il piede che calza quelle scarpe è il piede di Kurt Cobain e la foto fissa in maniera definitiva la scena del suo suicidio”.
Kurt Cobain è stato ritrovato morto nel garage di casa sua, la mattina dell’8 aprile 1994. Sia io che Demetrio ne abbiamo visto la foto alla televisione, con tutta probabilità la sera dello stesso giorno, e quell’immagine – prima che cominciasse a circolare e a rendersi disponibile ovunque grazie a Internet – si è depositata in una zona del nostro cervello. Uso la parola depositata non a caso, perché me la figuro non tanto come un’informazione o un dato da archiviare – compatto, solido e coeso – ma come una forma pulviscolare, una patina che agisce da distorsore o filtro.
Molti anni dopo, Demetrio va a comprare un paio di Converse. Entra in un negozio e ne chiede un paio di colore verde. Noi non possiamo sapere se si trattava di All Star, il modello Converse più popolare di sempre, oppure di One Star, quello calzato da Cobain il giorno del suicidio, perché nel suo pezzo Demetrio non lo dice. Però erano verdi.
Ogni volta che guardavo quella foto pensavo: Io non voglio essere uccisa.
Se non ho mai indossato le Converse è stato solo per un motivo funzionale: ho sempre ritenuto (e a ragione) che la suola piatta, senza il minimo accenno di tacco, mi affaticasse la camminata. Del resto non ho mai avuto uno specifico pensiero a proposito di quella marca – né feticismo, né idiosincrasia – almeno finché, nel 2003, mi sono trovata a dover rispondere a una domanda: Perché Kurt Cobain indossava proprio quelle scarpe?
Negli anni Ottanta era diffusa, fra le aziende americane, una tecnica di marketing piuttosto aggressiva chiamata seeding, semina. Quattro lustri prima di Internet e sei lustri prima dei vari youtuber, instagrammer, Chiara Ferragni e Fedez, gli influenzatori si reclutavano in altra maniera: i consulenti aziendali giravano per i licei, le università, i playground, le manifestazioni sportive, i concerti, e lì adocchiavano i ragazzi e le ragazze più cool, più popolari: la reginetta del prom o il campioncino di football – il Levov lo Svedese della situazione, per capirci. Regalavano loro dei prodotti, per lo più scarpe e capi di vestiario (ma il primo, pionieristico atto fu di un’azienda di birra), così che li sfoggiassero tra i compagni. Quegli adolescenti erano per le aziende dei “semi”; un contesto sociale che spingeva (e spinge tuttora) sul successo personale e sul desiderio, spesso frustrato e perciò doloroso, di emulazione del vincente, avrebbe fatto il resto. Nike aveva scoperto il ghetto, incubatoio di glorie sportive e musicali – casi rarissimi, contro migliaia di altri che avrebbero continuato a fare la fame e a spararsi addosso –, e tanto aveva coltivato il culto della marca come fenomeno aspirazionale, che ragazzini afroamericani di dodici, tredici anni pulivano la pelle delle loro hi-top con lo spazzolino da denti e avrebbero potuto accoltellarsi per un paio di Air Jordan (e a volte lo facevano). Nike spediva i suoi esperti a Filadelfia, a Chicago e a New York con valigie piene di campioni da mettere in mano ai più dotati, svegli, invidiati e invidiabili: Ehi, fratello, vuoi provare il modello nuovo? Anche Converse faceva lo stesso, ma preferiva i licei, le confraternite, i posti dove si suonava o si faceva arte, la Neo-Bohemia così ben descritta, nelle sue dinamiche di sfruttamento del lavoro creativo, da Richard Lloyd.
Kurt Cobain indossava le Converse di abitudine: caso? Scelta? E cosa ha contribuito a questa scelta?
Per molto tempo, Converse è stata considerata l’anti-Nike. Nike era l’eroe, l’urlo (Just do it!), il successo, il mainstream. Converse era l’anti-eroe, il silenzio, l’integrità anche a costo di fallire, l’underground. Chi rifiutava l’estetica e l’etica Nike, comprava Converse. Nike questo lo sapeva bene, e infatti ha comprato Converse: nel 2003, per 305 milioni di dollari.
Non sono più riuscita a guardare quella foto allo stesso modo di Demetrio. Il mio nuovo pensiero è diventato: Io non voglio essere manipolata.
Il nostro sguardo non è mai innocente: quando guardiamo un’immagine, noi siamo inevitabilmente suoi complici; le attribuiamo un significato, un valore e un portato simbolico e così facendo la rendiamo quello che è. Mentre leggevo il pezzo di Demetrio, pensavo che tutte quelle parole riuscivo a comprenderle ma non riuscivo a sentirle. O meglio, quel che sentivo in merito a ciò che del pezzo condividevo – il presente liquido e fluttuante, il precariato, le famiglie tenute in piedi a fatica, la fragilità e il vuoto politico nella mia generazione – era del tutto slegato da quella foto.
Poi l’attenzione mi si è fissata sul colore delle scarpe: Demetrio ricordava un verde scuro e la foto, in bianco e nero, non poteva né confermare né smentire. Il taglio originale è questo:
E la colorazione è questa:
È una foto rovinata: ci sono striature bianche che la sporcano e difetti di sviluppo, che donano alla stampa una tonalità verdastra. Qua e là compaiono fiammate, sempre di colore verde. Anche in questa versione, le scarpe di Kurt non si distinguono con chiarezza: potrebbero essere verde scuro, perché no, diciamo un tonalità bottiglia.
Nel 2004, la polizia di Seattle ha reso note due nuove foto della scena del suicidio. Ecco la prima:
È un primo piano della scarpa: la suola preme contro un sacchetto di carta contenente la scatola dei proiettili. È un’immagine di un realismo disincantato, brutale, perché il togliersi la vita ci viene presentato nei suoi aspetti più tecnici e prosastici: entrare in un negozio, chiedere una scatola di cartucce, pagare, rispondere: Sì, grazie, al commesso che domanda se abbiamo bisogno di un sacchetto, tutte azioni che eseguiamo ogni giorno, quando andiamo a comprare il pane, due chili di mele o una giacca nuova per l’inverno. Qui dubbi non ce ne sono: la Converse è una One Star, ed è nera.
Demetrio si è dunque ingannato: ha trattenuto dalla visione della foto rovinata un’impressione di verde, che poi ha trasferito alla scarpa mistificandone il colore. Trasferimenti come questo accadono spesso, perché la nostra memoria non è affidabile e spesso agisce nello stesso modo in cui agisce la lingua attraverso le figure di spostamento: coglie un dettaglio, vi si fissa e lo deforma – sproporzionandolo o generalizzandolo o associandolo ad altro che nella scena o nella conversazione era presente. Ci rende per l’appunto complici, sia di ciò che ascoltiamo, sia di ciò che guardiamo. Eppure Demetrio, nel suo autoinganno, si è messo relativamente a quella foto nella posizione del giusto, o per meglio dire dell’arte.
Leggiamo questo breve testo di Man Ray sul “Realismo fotografico”, apparso in Cahiers d’Art del 1935:
“Quale pittore, per quanto emancipato, rivoluzionario e sicuro di sé, quale pittore non ha mai provato dinanzi a una fotografia un istante di inquietudine o d’intimidazione, sentendosi davanti a essa situato al di fuori dell’attualità? Quella fotografia, che possiede una concretezza materiale persino minore della carta su cui è stampata, può dimostrare una forza, un’autorevolezza che, al pari di certe parole, superano la forza e l’autorevolezza di qualsiasi opera materiale. Io mi spiego questa forza con la necessità immediata del contatto sociale da cui la fotografia dipende. Come per la parola, la diffusione e l’attenzione che essa esige dalla massa non possono essere rimandate.
La pittura può attendere – anche nel disinteresse e nell’incomprensione – essendo certa d’essere un giorno scoperta, riconosciuta, mentre la fotografia, se non conquista subito il suo posto in quanto attualità, perde per sempre la sua forza”.
La mia foto di Cobain è la foto per come la vedeva Man Ray, nella sua fase ancora aspra, immatura, ancorata alla registrazione dell’atto presente. È un’immagine che richiede immediata necessità di contatto sociale, che vive il momento e che ha colori naturali, i colori della realtà, eventualmente distorti per un inciampo di natura tecnica come è accaduto con il viraggio in verde; ma è, resta, una realtà cronachistica e congelata. Una realtà che c’inchioda, impedendo alla nostra memoria di funzionare così come le è dato di funzionare: in modo imperfetto, perché noi siamo esseri imperfetti. La foto di Demetrio è invece una foto che può attendere: lasciare che la storia, scorrendo, la faccia decantare, per darle l’opportunità di diventare simbolo. Può diventare altro da sé, addormentare il suo valore contingente per risvegliarsi come sogno – materia onirica di un’epoca. E allora ha ragione lui, dopotutto: le Converse ai nostri piedi di quarantacinquenni possono essere solo verdi. Quelle nere sono rimaste nel 1994, assieme al Kurt Cobain che può vivere e morire solo e soltanto in quello specifico tempo, dentro una foto che tra cinquanta o cento anni, dovesse scomparire la narrazione che la accompagna, avrà esaurito ogni forza: la capacità non di mostrare, ma di dimostrare qualcosa di sé agli uomini – un valore di verità piuttosto che di fedele, trasposta, ma forse falsa realtà.
(Senza dubbio verde era invece il cardigan indossato da Cobain durante il concerto MTV Unplugged in New York e che vedete nell’immagine di copertina; mai lavato da allora, verrà battuto all’asta il prossimo 25 ottobre dalla Julien a New York e dovrebbe raggiungere i 300mila dollari di quotazione)
E di fotografia, non solo di pittura, parleremo nel nostro Scritto ad arte, il primo corso-laboratorio che fa uso delle arti figurative come strumento per immaginare, inventare e comporre un testo letterario. Comincia a febbraio 2020 e il bando sta qui.

Articolo interessante, complimenti! Un’altra faccia della morte di un idolo.