di Demetrio Paolin
Sto sfogliando il libro di Matteo Pericoli dal titolo Finestre su New York (Il Saggiatore, 2019), mi soffermo sulle variazioni tra le diverse immagini – in un libro così la variatio è forse la figura retorica centrale –: sono tutte delle finestre con veduta. Il libro è organizzato in questo modo, sulla pagina pari troviamo un breve testo scritto da una persona, che vive a New York e che ha deciso di ospitare l’illustratore, sulla pagina dispari invece troviamo il disegno di Pericoli.
Si crea nella lettura del testo una sorta di cortocircuito, ovviamente voluto, tra il disegno e la parola scritta che abbiamo vicino, come se una influenzasse la ricezione dell’altra.
Credo che questo sia il primo piano di lettura dell’opera in questione, ma per me ne esiste un altro, più significativo, che è legato al punto di vista in una narrazione. Mentre guardo questi disegni e leggo questi brevi scritti – didascalici nel senso più classico del termine, ovvero atti a produrre una descrizione di ciò che vediamo -, mi chiedo il grado di intimità che Pericoli deve aver preteso e ottenuto con le diverse persone che lo hanno reso ospite. L’idea che il punto di vista possa essere simile a una finestra che si apre sulla strada è qualcosa che nel romanzo naturalista dell’‘800 viene utilizzata spesso come metafora per spiegare il modo in cui l’autore guarda.
L’idea strumentale della finestra in narrativa, come nel cinema – pensate a Hitchcock
può essere molto interessante. La mia visione da una finestra è limitata, vedo soltanto ciò che l’intelaiatura mi consente di osservare: quel piccolo rettangolo è il mio sguardo sul mondo.
Mettiamo il caso che la mia finestra si affacci su una strada, che ha alcuni negozi, qualche casa e dei marciapiedi, mettiamo il caso che io veda due persone camminare; io posso descrivere queste persone, io posso sapere tutto di loro, ma solo fino a quando le vedrò nel raggio visivo della mia finestra; quando usciranno e non li vedrò più non avrò nessun potere immaginativo su di loro, fuori dal mio raggio visivo perderanno interesse.
Torno ancora un attimo sul concetto di intimità: la finestra indica appunto una sorta di intimità che l’autore e il narratore si danno. Il mio autore può coincidere perfettamente con il mio narratore, l’intimità sarà totale, lo sguardo dalla finestra quindi sarà limitato da appunto quello squarcio sulla realtà, ma autore e narratore non debbono per forza coincidere – l’esempio di Pericoli mi pare perfetto – lo sguardo di colui che scrive la didascalia e l’autore dell’immagine sono dissonanti, o quando meno non perfettamente sovrapponibili. Come autore posso saperne, sui miei personaggi, molto di più del narratore, ma posso decidere che la storia che verrà narrata sarà quella che il narratore ha deciso di raccontare. Autore e narratore sono due punti focali e, a seconda di come si posizionano, posso modificare la nostra percezione, immaginazione e descrizione della storia. Uno degli scrittori italiani che maggiormente usano questa funzione narrativa, che potremmo definire “finestra”, è Dario Voltolini. Il desiderio di Voltolini, pur essendo in lui assente qualsiasi tentativo di poetica naturalistica, è la produzione di una scrittura, che sia fedele e caotica riproduzione dell’esistenza; una caratteristica che accomuna i suoi esordi fino ai suoi libri più tardi come Pacific Palisades (Einaudi, 2018).
Ho l’impressione leggendolo che spesso la sua unica molla d’ispirazione, sia descrivere ciò che gli passa davanti agli occhi. Se i personaggi di Beckett ad esempio sono tutta parola, i personaggi di Voltolini sono sguardo, non si percepiscono esistenti se non in relazione a come e dove vengono visti. Questo è chiaro in un suo libro dal titolo Autunnale (BookSprint Edizioni, 2015) che guarda caso ha come sottotitolo Dalla finestra sul teatro. Il racconto prende le mosse da una finestra e da un uomo che si affaccia da essa. Leggiamone un breve assaggio
“Quel deposito si muove, quelle cose franano, avvampano, marciscono e stingono, senza mai fare una pausa: come è possibile scolpire un’onda? E quindi tutto il gioco dell’inquadratura resta fuori, viene da fuori. Il grande magazzino non ci pensa, ma un uomo da un certo punto su un balcone ha scorto una possibile soluzione, così rientra in casa, dalla stanza guarda fuori dalla finestra. Questo rettangolo aperto nel muro seleziona sezioni di magazzino, questo rettangolo per gioco organizza”.
Qui è chiaro che autore e protagonista non coincidono, l’autore si trova a voler descrivere il deposito – chiara metafora della realtà – ma non può, ovvio il riferimento al racconto di Calvino contenuto in Palomar, in cui protagonista cerca di descrivere un’onda. Mi sembra interessante sottolineare il passaggio: Calvino parla di descrizione, mentre Voltolini di scultura; ciò indica assodare alla pagina scritta una diversa tensione. Voltolini desidera bloccare un singolo momento, di fermare il tempo nell’attimo esatto dello sguardo – cosa che è più tipica della scultura e pittura che non della scrittura.
L’impossibilità dell’autore di fare ciò che desidera, lo costringe a una sorta di riduzione; assistiamo alla nascita del narratore: l’uomo che decide di rientrare in casa, di scegliere come spazio di narrativo ciò che vede da quel rettangolo – si notino i termini “seleziona” e “organizza” e la loro connotazione a porre un limite. Scrivere è quasi sempre prediligere, scegliere, un punto di vista piuttosto che un altro, un personaggio invece di un altro, una parola, un gesto uno sguardo; a seconda di ciò che sceglieremo, la storia raccontata verrà recepita differentemente da chi la legge o da chi la osserva, ma questo appunto lo vedremo nel prossimo articolo.
“Scritto ad arte”, organizzato dalla Bottega di narrazione, è un corso-laboratorio che fa uso delle arti figurative come strumento per immaginare, inventare e comporre un testo letterario. Si terrà a Milano, fra la Pinacoteca di Brera e la sede della Bottega di via Tenca 7, per due fine settimana: 22-23 febbraio e 4-5 aprile 2020. Sarà condotto da Demetrio Paolin e Valentina Durante. Per saperne di più.