di Demetrio Paolin
Abbiamo visto nei due interventi precedenti (1, 2) che il punto di vista produce un cambiamento del modo in cui percepiamo e raccontiamo la nostra storia. Siamo partiti da un’esigenza di realismo – la metafora della finestra – e siamo passati a un’idea di punto di vista che travalica la realtà sensibile – gli occhi di Che Guevara morente e il punto di vista di Dio in Primo Levi -; è possibile ipotizzare che il punto di vista non risponda a una descrizione del reale. C’è un quadro di Monica Ferrando dal titolo Briciole.
Su uno sfondo completamente bianco sono disegnate con una precisione fiamminga delle piccole briciole di pane. Giorgio Agamben nel suo ultimo libro, Studiolo (Einaudi, 2019) a proposito di quest’opera scrive
La pittura – sembra suggerire l’artista – non è una finestra albertiana attraverso la quale appare la realtà che l’occhio del pittore percepisce. Il gesto del pittore è quello che chiude questa finestra vanamente spalancata, per far apparire al suo posto la testa stessa, il bianco, abbagliante, abissale aver luogo della pittura.
Si comprende che la semplice elezione di una simbolica finestra o apertura su cui guardare il mondo non ha tanto a che fare con il mondo come percepito, ma come rappresentazione dello stesso. Ciò che conta nel punto di vista non è tanto la porzione di realtà che viene mostrata, ma la qualità e la profondità della percezione dell’autore. Il punto di vista non è soltanto una scelta interna alla meccanica della narrazione, ma rappresenta appunto un’opzione ideologica.
Prendiamo ad esempio la storia della passione di Gesù, il suo martirio e la sua morte in croce. Di questo fatto che è stato uno dei traumi centrali della Storia, ne esistono quattro versioni testimoniali, ognuna delle quali è differente dall’altra in maniera più o meno decisiva. In un racconto è centrale sapere la strategia con un cui un eroe esce di scena, ad esempio quali siano le parole con cui si congeda dal mondo. Nel caso della Passione abbiamo poi l’esigenza di testimoniare che questo è stato, le ultime volontà pronunciate sono di certo essenziali per validare il resoconto dei fatti che viene dato.
Chiediamoci quali sono state le ultime parole di Gesù sulla croce? Una veloce lettura ci aiuta.
Matteo e Marco riportano un’unica frase pronunciata da Cristo sulla croce: “Elì, Elì, lemà sabactàni. Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato”. Luca nel suo Vangelo fa un Gesù più loquace, le occorrenze sono tre: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”; “Da oggi sarai con me in Paradiso”; “Padre nelle tue mani consegno il mio spirito”. Tre occorrenze anche in Giovanni: “Donna ecco tuo figlio!”; “Ho sete”; “Tutto è compiuto”.
Anche a una breve analisi vediamo che il personaggio di Cristo nei 4 vangeli ha delle sfumature ben diverse: più in linea con la tradizione messianica ebrea i vangeli di Marco e Matteo; più vicino alla immagine del buon pastore che perdona quello di Luca, più simile a una tragedia cosmica il vangelo di Giovanni.
La scelta di come trattare la materia della propria testimonianza modifica anche la scelta delle parole, la scelta del punto di vista, ovvero il modo mondo con cui decidiamo di percepire la storia e di rappresentarla, modifica il mondo in cui la raccontiamo.
Faccio tre esempi diversi di racconti di passione. La prima è la Passione di Torino di Hans Memling.
Ciò che colpisce è la gestione del tempo. Tutti gli accadimenti della Passione avvengono sulla tela contemporaneamente. Il cielo è illuminato sia a destra che a sinistra da due fioche luci che potrebbero essere due albe o due tramonti e nel mezzo l’ora buia della morte di Cristo, la crocifissione è una scena tra le scene, tutte piccole e tutte miniaturizzate, proprio come le briciole del quadro della Ferrando; ogni cosa è dipinta con attenzione, ed è minuscola. Il quadro sembra un gioco dell’Oca, si snoda lungo una striscia di eventi che va dalla Domenica delle Palme, alla resurrezione di Cristo. In realtà il quadro può essere letto da sinistra a destra, oppure viceversa; si può partire da metà e seguitare verso un lato o l’altro. Qui il pittore volutamente non fornisce un punto di vista, fa in modo che sia chi guarda a eleggere il proprio personale percorso. La passione di Memling lavora ad esempio sulla contemporaneità, riesce quindi a dipingere fatti che pur essendo diacronicamente differenti appiano contemporanei agli occhi del lettore. Rimaniamo presso la Galleria sabauda e andiamo nella sala dove è presente la Trinità di Tintoretto.
Nei quadri rappresentanti la Trinità l’autore cerca solitamente di descrivere la particolare relazione che lega il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Anche Tintoretto non è da meno, ma a interessarci qui è una scelta molto particolare del suo punto di vista. Infatti noi guardiamo la scena come se fossimo ai piedi della croce. Se da un lato questa ipostazione ci fornisce la tangibile lontananza di Dio padre dal Figlio, dall’altra sembra proprio metterci “in prima fila” nell’evento più profondamente traumatico del mondo, ovvero la morte del figlio di Dio. Mi sono chiesto guardando questo quadro quale fosse il personaggio che vede in questo modo, la prospettiva da cui guardiamo la morte di Cristo. La risposta mi pare evidente: gli occhi con i quali guardiamo la sofferenza di Gesù sono quelli della madre, da sempre rappresentata ai piedi della croce. C’è, infatti, in questo quadro una sorta di intimità tra chi guarda e il Cristo. Il dipinto di Tintoretto è la rappresentazione visiva di Donna de Paradiso di Jacopone da Todi, proprio perché ci mette nei panni della Madonna. Questa predilezione del punto di vista sbieco è simile all’ultimo quadro che vi invito a guardare, Il buon ladrone di Tiziano.
Il pittore segue la tradizione della crocifissione, e quindi mette Cristo al centro, il buon ladrone alla sua destra, e il cattivo ladrone dovrebbe essere alla sua sinistra. Nel quadro, però, non abbiamo l’immagine di Gesta o Gesma (così è chiamato il malfattore), ma sono ritratti soltanto Cristo e colui che mostrando pietà per il figlio di Dio verrà salvato. In che modo possiamo interpretare questa scelta? Forse Tiziano, vuole suggerire che ognuno di noi è condannato? Che siamo tutti peccatori? Mettendo in tela i dibattiti che in quel tempo animavano la cultura europea su salvezza per fede o salvezza tramite le opere. Oppure data la luminosità dell’incarnato, e i corpi privi di dolore, il ladrone sembra quasi staccarsi dalla croce, Tiziano ha voluto raccontarci l’atto della resurrezione, il momento in cui il corpo, per il solo fatto che Cristo lo salva, si redime e la posizione del cattivo ladrone era l’unica possibile, quasi a suggerire che solo il peccatore, l’uomo che sbaglia, può sentire su di sé tutto tutta la gloriosa violenza della salvezza.
Mi avvio a concludere questi tre brevi pezzi sul punto di vista, ricordando come infine il punto di vista in una narrazione o in un racconto, lungi da essere un semplice cantuccio dal quale si osserva, è in primo luogo la profondità che diamo al racconto, è – prendendo a prestito un vocabolo dell’arte figurativa – la sua prospettiva.
“Scritto ad arte”, organizzato dalla Bottega di narrazione, è un corso-laboratorio che fa uso delle arti figurative come strumento per immaginare, inventare e comporre un testo letterario. Si terrà a Milano, fra la Pinacoteca di Brera e la sede della Bottega di via Tenca 7, per due fine settimana: 22-23 febbraio e 4-5 aprile 2020. Sarà condotto da Demetrio Paolin e Valentina Durante. Per saperne di più.
L’immagine di copertina è Show Window, di Christo and Jeanne-Claude, 2013.