Il cliché è morto, viva il cliché! (per una riabilitazione del luogo comune)

di Valentina Durante

Ho letto I fiori di Tarbes ovvero Il Terrore nelle Lettere di Jean Paulhan incuriosita da questo post di Giulio Mozzi, e poi da una recensione che lo presentava come una ficcante apologia del cliché. La recensione, a firma di Franco Marcoaldi, è di più di trent’anni fa. I fiori di Tarbes è del 1941 (nella sua prima edizione per Gallimard; in Italia è uscito nel 1989 per Marietti). Eppure l’argomento luogo comune mi sembra quanto mai attuale visto che, per esperienza, tutti – dai manuali di scrittura ai critici ai recensori – convergono nel demolirlo senza se e senza ma (ecco un cliché!), come frutto di una pigrizia che infiacchisce l’immaginazione dunque la lingua, o viceversa la lingua dunque l’immaginazione. Difendere la frase fatta, l’espressione trita, lo stereotipo, sembra cosa impossibile eppure Paulhan lo fa e procura, credetemi, un effetto liberatorio. Paulhan ha scelto con cura la sua metafora: certi soggetti, certe situazioni, a cimentarcisi sono terrorizzanti davvero, veri e propri campi minati (altro cliché?) per chi scrive. La luna per esempio: come parlarne? Cosa dire che non sia già stato detto, e come dirlo? Cosa guardare che non sia già stato visto, immaginare che non sia già stato immaginato? Meglio essere misurati, asettici, oppure spericolati col rischio a volte di sfiorare il ridicolo, o forse è meglio glissare? Niente luna, anzi per prudenza niente cielo del tutto, stasera restiamo in casa. “Il luogo comune”, ed è questa la posizione del Terrore, “rivelerebbe un pensiero non tanto indolente quanto asservito, non tanto inerte quanto trainato e come posseduto. In una parola, il cliché sta a significare che il linguaggio ha preso improvvisamente il sopravvento sullo spirito”, la forma sulla sostanza.

Un cliché, certo, può essere prodotto da un automatismo mentale che porta chi scrive ad afferrare la prima espressione – di solito una coppia nome-aggettivo – che gli si affaccia alla mente. Questa espressione è spesso sgualcita dall’abuso quotidiano, letterario, giornalistico, internettiano o dei vari specialismi eppure: “Se dico che la mattinata è radiosa e che l’orologio suona la mezzanotte, mi accade di parlare come in un libro, questo è vero. Ma non avevo detto questo per parlare come in un libro. Lo dico perché è vero”.

Può esserci in altre parole un’intenzione onesta, un’ambizione di verità nonostante tutto. E può esserci, in questi avvenimenti del linguaggio pur irrigiditi, una potenziale freschezza, che deriva proprio dal loro essere forme fisse, dunque suscettibili di variazione e reinvenzione. Del cliché, dice Paulhan, s’intravvedono nobilissimi impieghi: “l’ironia, l’insistenza, la lieve deformazione, una sottile differenza, una caduta di tono”. Un cliché in bocca a certi personaggi aumenta l’effetto realistico di un dialogo, perché le persone realmente parlano per frasi fatte. Si tratta di costruire un terreno di fiducia con il lettore: non temere, non ti sto ingannando, né deludendo con la mia ingenuità o la mia pigrizia; so quel che faccio e stiamo veramente, noi due, “sullo stesso versante del luogo comune”.

Quest’anno abbiamo avuto dalle mie parti un Natale assolato, freddo e secco. Durante una delle nostre passeggiate sul Montello mio figlio (dieci anni) si è preso un po’ indietro e nel silenzio – io gli davo le spalle – l’ho sentito esclamare: “Mamma, ho rotto il ghiaccio!”.

Prima di voltarmi ho fatto due pensieri.

Il primo è che non gli avevo mai sentito adoperare quell’espressione: da dove saltava fuori? Chi ha, o accudisce, bambini sa che si prova un disorientamento tutto particolare quando si comincia ad ascoltare in loro una lingua estranea al lessico famigliare. È come se uscissero di casa da una porta che tu neppure avevi mai notato.

Il secondo pensiero riguardava la pertinenza: non c’erano altre persone sulla strada a parte noi due perciò: rompere il ghiaccio con chi?

Mi sono voltata e mio figlio stava accanto a una pozzanghera gelata, alla quale aveva dato un bel pestone: eh sì, aveva proprio rotto il ghiaccio. Quella frase fatta mi è sembrata d’un tratto disfatta, riassemblata dalla mente e nuova di zecca: in me l’uso metaforico aveva ormai scalzato quello letterale fino a cancellarlo, e ora il senso primario ritornava fuori, suonandomi fresco e nuovo come una creatura appena nata.

Si dice che la lingua sia un cimitero di metafore, ma a volte basta tornare al loro senso primo per scoperchiare la tomba e resuscitare il morto, e questa è una delle possibilità che il cliché ci mette a disposizione. Paulhan afferma che i luoghi comuni tutto possono essere – belli o brutti, intelligenti o sciocchi – fuorché comuni, sono anzi “un’espressione oscillante e diversa per eccellenza, che si presta a un duplice o quadruplice senso”. Troviamo un loro equivalente anche nelle arti figurative, che sono zeppe di ciò che in scrittura chiameremmo “frasi fatte”: i motivi iconografici fissati dalla tradizione e che permettevano, un tempo, quando l’arte aveva una funzione sociale ben determinata e la necessità di rendersi comprensibile a tutti, di rappresentare un soggetto senza fraintendimenti.

Giovanni Battista, per esempio, è riconoscibile per una serie di attributi codificati a partire già dai primi secoli cristiani: la tunica di pelle sostenuta da una cintura di cuoio, l’estrema magrezza, capelli lunghi e barba che ne rivelano la scelta ascetica di vita. Ma il suo segno principe è la mano destra che indica: l’agnello di Dio, il bastone, l’Infante, la croce, il cartiglio, insomma un qualcosa di ben identificato che rimanda al Cristo. Il santo ne è precursore e annunciatore, e la trasposizione in immagine verte sul rapporto diretto e visibile fra i due.

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Jacopo del Casentino, San Giovanni Battista, 1330.
3
Marco Palmezzano, Sacra Conversazione, 1493.

Consideriamo l’uso che Leonardo da Vinci ha fatto di questo gesto stereotipo:

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L’indice sembra puntare verso il cielo più che verso la croce stretta nel pugno, prospettandoci un valore generale e non più un destinatario particolare. Picasso commentò: “Sì, da Vinci promette il paradiso: guardate quel dito levato”. E se non è il paradiso, di certo è una rilettura del cliché che ci appare adesso audace, non immobilizzato da una regola e del tutto naturale. E però la naturalità, il recuperare il gesto a una sua dimensione reale e terrena, ci deriva proprio dall’incrinarsi della regola stessa – che ad artista e pubblico era ben nota.

Guardiamo ora l’interpretazione di Rodin.

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Anche qui l’indice destro punta al cielo come nell’opera leonardiana, ma il braccio non ha più slancio e il dito pare rattrappirsi in un gesto appena abbozzato, un’intenzione abortita. A mostrare decisione è invece l’indice della mano opposta – la sinistra – ma ecco che non è più il cielo la sua meta bensì la terra, la terrestrità della figura. Del santo precursore e annunciatore non resta quasi più nulla e a emergere è l’uomo: il santo sembra offrire una semplice occasione, il pretesto per poter mostrare il movimento e il vigore di un corpo tutto intensamente umano. Però ancora, se non fosse esistito il cliché, la regola da conoscere e scombinare, avremmo percepito la sua variazione con la stessa forza?

Jean-Paul Sartre scrive, nella prefazione a Ritratto d’ignoto di Nathalie Sarraute, che i personaggi della Serraute non sono presi “nè da dentro nè da fuori”, perché noi siamo “per noi stessi e per gli altri, tutt’uno, in cui dentro e fuori coesistono contemporaneamente”. L’esterno non è un guscio che ci contiene e ci svilisce ma “l’intimo di noi stessi che vogliamo essere per gli altri”. Ed è proprio questo, ci dice Sartre, “il regno del luogo comune”. “Questa bella espressione” ci dice, “ha un duplice senso: indica senz’altro i pensieri più frusti, ma questi pensieri sono pur diventati il luogo d’incontro della comunità”. In questo luogo d’incontro c’è spazio a sufficienza per adagiarsi – e non sempre è una caduta di tono – ma anche per ripensare un gesto e scegliere infine di voltare lo sguardo altrove.

Che dire ancora? Concluderei senz’altro con un bel cliché:

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“Scritto ad arte”, organizzato dalla Bottega di narrazione, è un corso-laboratorio che fa uso delle arti figurative come strumento per immaginare, inventare e comporre un testo letterario. Si terrà a Milano, fra la Pinacoteca di Brera e la sede della Bottega di via Tenca 7, per due fine settimana: 22-23 febbraio e 4-5 aprile 2020. Sarà condotto da Demetrio Paolin e Valentina Durante. Per saperne di più.

L’immagine di copertina è un dettaglio da Notte stellata di Vincent van Gogh.