I personaggi sono corpi. Qualche suggestione

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di Giulio Mozzi
direttore della Bottega di narrazione

“Noi siamo corpi. Questa è la mia idea fondamentale. Raccontare una storia di un individuo è prima di tutto la storia di un corpo”.

Così Edoardo Sanguineti (1930-2010), poeta e narratore e critico e studioso e molto altro, in una delle sue ultime interviste. Non mi metterò qui a collocare questa perentoria affermazione nel contesto dell’opera sanguinetiana. Mi limiterò a prenderla per buona, e a ricavarne qualche suggestione utile – almeno spero – per la scrittura.

La prima cosa che può venire in mente, ed è ovvio, è il Ritratto di Dorian Grey, romanzo di Oscar Wilde (1854-1900). La storia la sanno tutti: un pittore fa un ritratto a Dorian, giovinetto bellissimo; Dorian, diventando adulto e poi vecchio, diventa sordido e cattivissimo; ma il suo corpo non invecchia. Invecchia, al posto suo, il ritratto. Nell’ultima scena Dorian, non potendo sopportare la visione del ritratto (che già conservava in una stanza chiusa ec.), che gli rimanda un’immagine di sé non solo invecchiato, ma anche depravato, lo accoltella. La servitù accorre. Nel vecchio che giace a terra esanime viene a stento riconosciuto Dorian; mentre la sua bellezza giovanile risplende intatta nel ritratto. (Se volete, potete confrontare questa storia con il racconto di Edgar Allan Poe William Wilson).

Ma, indubbiamente, la storia raccontata da Wilde può sembrare a chi la legga oggi un po’ troppo meccanica. Nei romanzi dell’Ottocento vigeva una convenzione: i “buoni” dovevano avere corpi belli, per così dire lisci, non segnati dal tempo (e, in particolare, le donne “buone” dovevano essere angelicate o giù di lì); mentre i “cattivi” dovevano essere brutti e, se possibile, deformi. A fare da contraltare a questa convenzione ci sono le storie in cui, invece, il “brutto” rivela – ma, tendenzialmente, solo alla fine della storia… – un animo gentile: e si va dalla favola La bella e la bestia, di Madame Leprince de Beaumont fino al protagonista di Notre-Dame de Paris di Victor Hugo, il gobbo Quasimodo. Come sempre in questi casi, le eccezioni confermano la regola: il rovesciamento di un cliché costituisce sempre, almeno in una certa misura, una conferma della forza del cliché.

Ma allontaniamoci da questa via e proviamo, invece, a farci una domanda: che cosa sappiamo, noi che scriviamo storie, del corpo dei nostri personaggi? E’ abbastanza evidente che non si può fare un film senza mostrare il corpo degli attori: ed è evidente, per dire, che Colazione da Tiffany sarebbe impensabile senza il corpo di Audrey Hepburn o che Il cappotto di Lattuada, tratto con molta libertà dal celebre racconto di Gogol, film del 1952, sarebbe tutt’altra cosa senza il corpo di Renato Rascel (lo so, scommetto che questo film non lo conoscete; ma è bello, e fu premiato al festival di Cannes. Primo tempo, Secondo tempo).

Il corpo di un personaggio è il mezzo con il quale il personaggio stesso percepisce il mondo. Per tutti noi è facile immaginare (è facile immaginare sommariamente; nel dettaglio, è un altro paio di maniche) che il mondo sia una cosa diversa per un personaggio cieco e per un personaggio che ci veda benissimo, per un personaggio tredicenne o per un personaggio novantenne. Per molti però – me ne sono accorto in un quarto di secolo di lavoro editoriale e di insegnamento della narrazione – è difficile immaginare che il mondo può essere una cosa diversa per un personaggio alto un metro e ottanta e per uno alto un metro e sessantacinque, per un personaggio destro e per uno mancino, per un personaggio atletico e per uno dal corpo impiegatizio.

Come facevano notare George Lakoff e Mark Johnson in Metafora e vita quotidiana (Metaphors We Live By, 1980; in Italia trdotto da Bompiani), molte “metafore di orientamento” derivano dal modo in cui sta il nostro corpo nel mondo. Pensate alle semplici opposizioni tra giù e su, alto e basso, davanti e dietro, destra e sinistra, dentro e fuori. Nella nostra cultura, il alto c’è Dio (o chi per lui), in basso c’è il mondo, e più sotto ancora (si dice) il regno dei morti. Quando siamo tristi siamo giù, e gli amici cercano di tirarci su. L’ospite d’onore va alla destra del padrone di casa. Uno che pasticcia con le mani è maldestro, uno che ci guarda storto (ecco un’altra opposizione: dritto/storto o obliquo) ha un’aria sinistra. Se sentiamo, di notte, un passo alle nostre spalle (altra opposizione: giorno/notte, chiaro/oscuro), ci inquietiamo: preferiamo guardare le persone in faccia, averle di fronte. E così via. Non è una questione di correttezza politica: non voglio dirvi che non è carino dire a un amico cieco “Ci vediamo domani” o a un’amica mancina “Ma come sei maldestra!”. Voglio dire che per ciascuno di noi, poiché ciascuno di noi ha un corpo diverso, queste “metafore di orientamento”, sulle quali si fonda molto della nostra percezione del mondo, funzionano in modo un po’ diverso.

Sappiamo tutti che prima di attraversare la strada bisogna guardare a sinistra e a destra (prima a sinistra, mi raccomando: perché i veicoli che viaggiano dal nostro lato della strada provengono dalla nostra sinistra – a meno che non viviamo in Gran Bretagna o a Malta). Tuttavia Google mi restituisce 1,75 milioni di risultati per “destra e sinistra” e 0,5 milioni per “sinistra e destra”; così come mi dà 370 mila risultati per “alto e basso” e 97 mila per “basso e alto” (l’ordine delle parole, evidentemente, è più “gerarchico” – nella gerarchia, si sa, comanda chi sta “in alto” – che logico o materiale). Tutti gli indicatori a lancette hanno lo zero a sinistra e il massimo a destra (guardate il cruscotto della vostra automobile). Non so come vadano le cose in Gran Bretagna, ma mi sembra che anche lassù le lancette degli orologi girino… in senso orario (stavo per dire: da sinistra a destra; perché, ovviamente, d’istinto considero più rilevante la parte di movimento che le lancette compiono nella parte alta – più nobile – del quadrante, rispetto a quella, da destra a sinistra, che compiono nella parte bassa, all’inferno).

Pensare al corpo dei personaggi significa quindi, tanto per cominciare, pensare al loro corpo come a un centro di percezione (eh già: anche centro/superficie è un’opposizione interessante) e quindi, quando focalizziamo su uno o sull’altro la narrazione, capire se e come e quando eccetera la percezione del mondo di quel personaggio lì è diversa dalla nostra. Se non sentiamo la differenza, ovviamente non possiamo rappresentare nulla.

In questi mesi abbiamo imparato che la vicinanza ad altre persone può essere pericolosa. Ci è stato detto di restare il più possibile chiusi in casa, di coprire naso e bocca con mascherine, di evitare baci e abbracci e strette di mano, di conservare una certa distanza. Tutto questo ha cambiato il nostro modo di percepire il nostro corpo in mezzo ad altri corpi. Se fino a gennaio 2020 l’affollamento del centro delle città al sabato pomeriggio poteva esserci indifferente, o piacerci, oggi non può non darci almeno un piccolo brivido. Nell’entrare in una trattoria, fino a qualche mese fa, aguzzavamo (opposizione: acuto/ottuso) soprattutto il naso, per sentire gli odori; oggi cerchiamo di cogliere con gli occhi le distanze tra i tavoli. Eravamo abituati a sorridere, a fare smorfie con la bocca: oggi, per comunicare, dobbiamo fare a meno della bocca e usare di più la voce, gli occhi, le orecchie (chi di voi sa muovere le orecchie?), le mani (ma non il contatto). Come è cambiata, in generale, la nostra percezione dei corpi? Com’è cambiata la nostra percezione del nostro corpo? Se mai qualcuno scriverà il romanzo del lockdown, ho come il sospetto che dovrà non tanto parlare di questo, quanto includere questo nel modo di raccontare.

Ma torniamo a Sanguineti, alla citazione iniziale. Noi siamo abituati, da un paio di millenni e mezzo, a pensare a noi stessi come composti da una parte materiale e da una parte immateriale. L’opposizione corpo/anima (che, ci tengo a ricordarlo, viene dalla tradzione greca e non da quella giudaico-cristiana) ci permette di pensare, per esempio, che una parte di noi, quella materiale, sia soggetta all’usura del tempo e una parte di noi, quella immateriale, non lo sia: addirittura, che sia destinata a esistere per sempre. Ma possiamo anche fare l’immaginazione opposta: che la nostra parte materiale, poiché “nulla si crea e nulla si distrugge” (che non è un luogo comune, ma il cosiddetto postulato fondamentale proposto dal chimico Antoine-Laurent de Lavoisier (1743-1794) e universalmente accettato), abbia un’esistenza eterna, mentre la parte immateriale, a quel che si può osservare, inizia con la nascita (o nove mesi prima) e finisce con la morte. Il Catechismo della chiesa cattolica, al paragrafo 365, afferma: “L’unità dell’anima e del corpo è così profonda che si deve considerare l’anima come la «forma» del corpo”, concetto di evidente derivazione aristotelica, fissato in un concilio del 1321 (per approfondire: un articolo di Alessio Baldissera, leggibile gratuitamente con registrazione). (E possiamo domandarci: sarà un caso, che un’affermazione così importante, così “cosmica”, sia collocata nel paragrafo 365?). I nostri personaggi, nella nostra immaginazione, che cosa sono? Sono unità di corpo e anima? Sono corpi? Sono anime? Sono mortali? Sono destinati alla vita eterna? I loro corpi sono qualcosa che riceve la propria forma da un’ “anima”, o sono il casuale (o l’occasionale) e temportaneo stabilizzarsi di una certa quantità di biomassa? E: come cambiano, i loro destini, le loro azioni, il senso di ciò che fanno, il loro essere – qualunque modo siano – a seconda di come li immaginiamo? Alle “metafore di orientamento”, insomma, dobbiamo pur aggiungere le – non saprei come chiamarle – “immaginazioni di natura”. Se il fotografo Lorenzo Capellini ha intitolato una sua mostra di nudi femminili L’anima del corpo, riusciamo a immaginare una mostra di fotografie intitolata Il corpo dell’anima?

Più pensiamo ai nostri personaggi come a “corpi”, più è importante la biologia. Nel ciclo di romanzi di fantascienza Dune, di Frank Herbert, l’intera popolazione umana è presentata come una sorta di grande organismo: che ovviamente lotta per la sopravvivenza, le cui cellule possono subire mutazioni, che è fatalmente attratto dall’omeostasi, che può subire attacchi virali, e così via. I personaggi stessi sono consapevoli di questa natura dell’intera popolazione umana: sanno, per esempio, di essere in primo luogo destinati alla riproduzione. Sanno che la trasmissione del sapere umano avviene attraverso l’addestramento ma anche per trasmissione genetica. Sanno che il grande conflitto universale è quello tra il naturale determinismo – ciò per cui una perfetta conoscenza del passato permetterebbe una perfetta conoscenza del futuro – e i gradi di libertà degli esseri umani. Eccetera. Non so se Sanguineti abbia mai letto Dune, ma suppongo che lo avrebbe molto apprezzato (anche se, alla fin fine, Dune è pur sembre un libro – scusate la parolaccia – spirituale).

Mi fermo qui. “Ma come”, direte, “hai divagato di qua e di là, e adesso all’improvviso ti fermi?”. Sì. Mi fermo. Sono convinto che, su certi argomenti, e almeno nell’ambito che è mio – l’insegnamento della narrazione – sia preferibile gettare il sasso, suggestionare, mettere in moto pensieri e immaginazioni, piuttosto che proporre un discorso sistematico. A me basta che, ora che avete letto, da questo momento in poi, per voi i personaggi siano più “corpo” e meno “psiche”. Perché, devo dire, quella di considerare i personaggi come “psiche”, come entità mentali, è veramente – dal punto di vista della narrazione – una gran scomoda cosa.

[In alto: una “stanza di Ames”, ispirata agli esperimenti di Adalbert Ames. Approfondisci].

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