di Giulio Mozzi
direttore della Bottega di narrazione
Leggiamo questa poesia di Valerio Magrelli, dal libro Ora serrata retinae:
Bisognerebbe fare alla fine d’ogni libro
una piantina. Non un indice, piuttosto
una planimetria delle sue parti,
descrivendo le fondamenta,
i suoi diversi accessi, le stanze,
i servizi e i disimpegni.
Bisognerebbe precisarne anche
la capienza ed i costi, spiegando
l’ammontare della manutenzione nel tempo.
Svelare così l’ossatura del cantiere,
le sue membra nascoste
dal paramento della pagina.
Soprattutto sapere: quale
e quanto il materiale
(legname, pietre, tubature, cemento)?
Quando il libro fu pubblicato, nel 1980, Valerio Magrelli aveva ventitré anni. L’anno prima, diciannovenne, ero stato a Parigi. Avevo voluto andare a Parigi soprattutto per vedere un edificio. Non la Torre Eiffel, non il Louvre, eccetera eccetera, ma per vedere il Centre Georges Pompidou. Se non lo conoscete, lo vedete nella fotografia in alto. (Avevo voluto andarci anche per l’Ircam, a dire il vero: che stava sottoterra, sotto la piazza antistante).
Perché mi interessava tanto il Pompidou? Non saprei dirlo con sicurezza: si tratta pur sempre di quarant’anni fa, e la mia memoria è quel che è. Avevo letto nei giornali gli articoli che parlavano di questo strano, innovativo edificio (progettato da un architetto italiano fin allora sconosciuto, Renzo Piano: ma l’italianità del progetto non m’interessava). Me lo immaginavo come un animale che fosse stato mostruosamente rivoltato: col dentro per fuori e il fuori per dentro. O come le “esplosioni” di macchine che vedevo nell’enciclopedia tecnica. O… non lo so. So che volevo assolutamente vederlo. Ci passai dentro non so quanti pomeriggi: a guardare le mostre, certo, ad ascoltare musica, certo, ma soprattutto a guardare l’edificio in sé e per sé.
Se non siete mai stati nella Piazza del Campidoglio, dovreste andarci. Nessuna fotografia può rendere l’idea (per questo ne ho scelta una che offre una vista impossibile per il visitatore, dall’alto). Quando siete lì, avete la sensazione di stare in uno spazio magico (l’ha disegnata, nientemeno, Michelangelo). E la cosa stupefacente è che tutto ciò che produce quel meraviglioso effetto, tutto ciò che vi illude, è perfettamente visibile. I due edifici laterali, i segni sulla pavimentazione, le statue… Niente è nascosto. Eppure c’è un effetto di mistero, non di svelamento.
Nei suoi libri Atlante del romanzo europeo e La letteratura vista da lontano, lo studioso Franco Moretti ha proposto un modo innovativo, molto interessante, di esaminare i romanzi. Quei suoi libri sono pieni di mappe, di planimetrie, di diagrammi. Potete trovarci la ricostruzione dei percorsi dei personaggi di Balzac all’interno di Parigi, o la cartografia dell’intera opera di una scrittrice inglese specializzata in racconti di campagna (non ho i libri sottomano, sto citando a memoria). Così come potete trovarci una meravigliosa tabella che indica le date di nascita e di morte, e la durata di vita, di almeno due dozzine di generi e sottogeneri letterari. Qui sotto un esempio, dall’edizione americana dell’Atlante:
Ma veniamo dunque a noi. Mentre si scrive un romanzo, è frequente che si faccia ricorso a degli schemi. Spesso si comincia scrivendo, per fissarlo bene nella memoria e “collaudarlo” dal punto di vista della tenuta, una specie di “soggetto” del romanzo. Taluni poi passano a una “scaletta”: e c’è chi scrive una scaletta della narrazione, includendovi quindi tutti gli eventuali andirivieni temporali, e chi invece preferisce scalettare la pura e semplice “fabula”, ossia la lista degli eventi in ordine cronologico. Se la storia è complessa, se ci sono molti personaggi, eccetera, è possibile che prima o poi si arrivi anche a disegnare qualche “mappa concettuale”. Più o meno tutti mettono dei titoli ai capitoli, alcuni anche ai paragrafi – di solito per tolgierli poi, perché quei titoli servono molto all’autore per orientarsi, meno al lettore che, giustamente, chiede piuttosto di perdersi. A volte, ma di solito dopo la morte del compianto autore, i filologi e gli editori si divertono a farci entrare “nel laboratorio della scrittura”, e pubblicano libri – di solito assai costosi – con riproduzioni fotografiche di manoscritti, disegni, tabelle, schemi, elenchi, e chi più ne ha più ne metta. Confesso che ho sempre guardato questi libri con molta curiosità. Non so se insegnano qualcosa, certamente mettono in moto l’immaginazione.
E qui naturalmente bisogna parlare di Perec. Al quale la prima immaginazione di quella che poi sarebbe stata la sua opera maggiore, il romanzo La vita istruzioni per l’uso, venne da un disegno di Saul Steinberg:
La vita istruzioni per l’uso, si sa, è un romanzo ambientato in un palazzo di Parigi. Il palazzo ha 100 stanze. Ciascuno dei 99 capitoli ne descrive una (e qual è la stanza mancante? Non sarò certo io a dirvelo, pigroni: leggete il romanzo, che è bellissimo). Dalle descrizioni nascono storie su storie, storie dentro le storie, storie che intrecciano le storie. Alla fine del romanzo Perec ha effettivamente inserito non esattamente una planimetria, ma un sintetico “spaccato” del palazzo:
Alla fine delle Città invisibili Italo Calvino, in una minuziosa nota, spiega come e perché le città da lui inventate siano disposte nel libro in quel certo modo: non si tratta di una planimetria ma, diciamo, della descrizione di una planimetria. Qualcosa di simile c’è anche alla fine del suo libro secondo me più bello, Palomar.
Il romanzo di Edoardo Sanguineti Il giuoco dell’oca è costituito da 111 brevissimi capitoli (un paio di cartelle ciascuno). La quarta di copertina, ovviamente scritta dall’autore, fornisce le regole del gioco (o giuoco, se vogliamo seguire l’autore):
Per giocare ci si serve di due dadi numerati dall’1 al 6, e si tira chi debba giocare per primo, e si conviene la posta al giuoco. Colui che fa 12 va al 110 e ci trova SUPERGIRL, e può ritirare una volta sola con un solo dado; se per caso l’1 venisse, egli ha finito il romanzo. Se un altro tira il 12, e tirata su con le rete la ragazza va fino al 110, allora il primo resta al frontespizio. Colui che va al 55, e dietro la macchina da presa vede l’occhio dello scheletro, retrocede dov’era prima, senza pagare; se per caso tirando di nuovo tornasse al 55, ritornerà un’altra volta al suo posto. Colui che va al 50, che è l’ultima cella, paga e resta fermo finché un altro lo leva e si ferma al suo posto, pagando il convenuto. Colui che oltrepassa il 111, tornerà indietro e incontrando un’oca retrocederà di nuovo. Colui che arriva al 111 ha vinto tutto, e può passare ad un altro libro. Quando si fa 9 (dove c’è Paola Pitagora), se è con 6 e 3, si va al 96 e si ascolta una sfuriata giustificata e densa di significato; e se esce 5 e 4, si va al 59, coi due malviventi pronti a chiudere gli sportelli del sarcofago – ed ogni volta che si incontra un’oca, si va avanti ricontando il numero fatto. Si paga il convenuto quando si va alle seguenti poste: 7, 11, 83: e tu lettore riscontrerai la fronzuta verità di questa cabala. Chi va al 48 torna al 21 e vi legge parole oscure. Chi arriva al 45, sulle ali della ragazza vola al 111, ‘putre et factus’. La morte sta all’82: chi vi giunge IS DEAD e paga. Chi arriva al 51 si ritira dal giuoco; chi arriva al 28 torna all’1; chi arriva al 64 va avanti di tanti punti quanti quelli dell’ultima giocata; chi, essendosi una volta fermato al 4, capita nel 34, va fino all’83: e capirà perché. Chi arriva al 62 o vuoi al 65, prosegue al 73; e chi arriva al 24, tira i dadi un’altra volta.
Non è esattamente una planimetria, anche questa, ma è pur sempre una sorta di descrizione strutturale. Potremmo ricordare anche Julio Cortàzar, che pone all’inizio del suo romanzo Rayuela, ossia Il gioco del mondo (quello che in altre parti d’Italia si chiama anche “campana”, “campanon”, “basilica”, eccetera) una chiara Tavola d’orientamento:
Credo che il desiderio del giovane Valerio Magrelli potrebbe essere, da una Tavola come questa, ampiamente soddisfatto.
Ma veniamo a noi. A che cosa ci serve, a noi che vogliamo scrivere, riflettere su queste cose? Serve, secondo me, sopratutto per questo: perché ci abituiamo a pensare alle narrazioni non solo come a dei movimenti lineari – la storia va da qui a qui – ma anche, e forse soprattutto, come delle mappe, magari delle mappe in tre dimensioni. Faccio un esempio manzoniano:
– quando va a trovare don Rodrigo nel suo castello, fra’ Cristoforo a un certo punto perde la pazienza e alza un braccio cominciando a dire: “Verrà un giorno…”. Don Rodrigo lo ferma, lo zittisce e lo caccia.
– molti capitoli dopo, quando al Lazzaretto Renzo incontra fra’ Cristoforo, a un certo punto Renzo comincia a maledire don Rodrigo, agitando un braccio: fra’ Cristoforo lo ferma, lo trascina nell’angolo dove don Rodrigo sta morendo di peste, e lo invita a perdonarlo.
Il gesto di fermare l’interlocutore, prenderlo per un braccio, zittirlo, e fargli cambiare ambiente (Rodrigo caccia Cristoforo, Cristoforo accompagna altrove Renzo) si ripete. In questo punto il romanzo, per così dire, si ripiega su sé stesso: i due punti, lontani parecchi capitoli (e anche parecchi mesi della storia) vengono a coincidere. Ecco: pensare per planimetrie, mappe e quant’altro serve a individuare (e anche a produrre, naturalmente) in ciò che si scrive le occasioni di una strutturazione non esclusivamente narrativa (narrazione = eventi legati ad altri eventi da legami di cause ed effetti) ma più, per così dire, geografica, o se preferite: mitica.
Perché la narrazione è la produzione di qualcosa di sempre nuovo, sempre diverso e sorprendente, mentre il mito è il territorio di ciò che si ripete, magari non sempre esattamente uguale, ma si ripete e ripetendosi sostiene il mondo (narrato).