A proposito del “così com’è”. Appunti sul realismo come genere letterario

di Demetrio Paolin

0. Scrivere è dover fare i conti con divieti e permessi

1. Cesare Pavese scrive ne Il mestiere di vivere: «La letteratura non si contrappone a “senso pratico” ma a “senso del reale”…». Come tutte le frasi sibilline e oracolari di Pavese queste parole si prestano a diverse interpretazioni. A me interessa sottolineare il discorso della «contrapposizione a». Ecco, la letteratura è in contrapposizione al reale, a ciò che è: questo non significa che il reale non esista, che il sole non sorga, che le foglie non cadano, che un grave gettato da una torre non cada con una determinata accelerazione eccetera. La letteratura non abolisce le leggi della fisica o il concreto essere delle cose davanti a noi, ma vi si contrappone. Scrivere è non accettare questa cosa che chiamiamo vita, mondo, esistenza, ma anche bicchiere, piatto, bacio, sesso di donna, per com’è, ma è ipotizzare qualcosa altro, questo qualcosa altro si dà nel fatto che noi usiamo le parole per costruirlo, per renderlo esistente.

Quando scrivo un romanzo non riproduco la realtà, ma contrappongo alla realtà qualcosa, che è altro, fittizio&immaginato, ma altrettanto concretamente esistente. Il romanzo esiste: è nei fogli scritti, in alcuni casi occupa un posto in uno spazio e produce reazioni concrete in chi lo legge (bellezza, disprezzo, odio, indifferenza). È reale, ma non ha nulla a che fare con la realtà che descrive, perché nel momento in cui la descrive è come se si mettesse fuori, come se la guardasse da fuori.

Ciò che ci capita nella vita – i dolori e le bellezze, i tradimenti e i lutti – diventa nella scrittura qualcosa di totalmente slegato e indifferente a ciò che l’ha prodotto. Anche se volessi scrivere la cosa così come è – ad esempio il racconto della morte di mio padre o di mia madre – io non potrò farlo perché la scrittura non è la riproduzione del “così come è”, ma rappresenta il tentativo del “potrebbe essere così”. Nel momento in cui decidiamo di scrivere il nostro lutto, ecco, in quel preciso momento facciamo del nostro lutto niente altro che una funzione narrativa: lo svuotiamo di tutto il carico reale che abbiamo e lo facciamo diventare una ipotesi di montaggio, di frasi, di parole, di sintassi che niente ha a che fare con il corpo morto che vorremmo descrivere. Quel corpo morto non è il corpo morto che sarà in pagina, perché risponderà ad altre esigenze estetiche, di trama, di coerenza logica del racconto; dovremmo fare a pezzi il nostro lutto, sacrificarlo alla logica della storia, lo faremo diventare un pezzo di qualcos’altro. Il morto che abbiamo pianto realmente non ha nulla a che vedere con il morto che sarà nella pagina; paradossalmente il morto sulla pagina sarà tanto più convincente quanto più si contrapporrà al padre morto della vita reale. Per chi scrive la vita reale è solo una somma di occasioni sostanzialmente indifferenti, dalle quali trarne una sorta di bellezza.

1.1 «Scrivere non è mai restituire la vita. Al contrario, in sé stessa, l’operazione di scrivere guerreggia con la vita, le va contro e le si oppone» (Cesare Garboli).

Gustave Courbet, Funerale a Ornans.

2. Che rapporto abbiamo con la realtà? Sostanzialmente, a me, della realtà non interessa nulla. Di queste cose che sono qui davanti a me, e chiamo cose – le persone, gli atti, i fatti, i pensieri, la panettiera, il postino che suona in questo momento – ho dovuto fermarmi e ora riprendo a scrivere -; ecco, questo accadere di fatti a me non interessa; paradossalmente non mi interessano i morti, i vivi, gli stupri, gli omicidi, niente che sia di questo mondo; neppure l’amore mi interessa, né l’odio, o il sesso o le infinite gradazioni tra queste tre cose.
La realtà è qualcosa che non desta in me nessuna scintilla; mentre la lingua, il linguaggio, le parole, il modo in cui si combinano le frasi – le ipotetiche, le avversative, le ottative, le principali, le subordinate – i suoni, le allitterazioni, i chiasmi, le strutture retoriche, le reticenze e le lacune hanno su di me potere e producono desiderio. Io non vivo la realtà, il reale, io vivo una lingua e la lingua è un modo per dis-dire il mondo e il reale. La lingua falsifica il mondo e la realtà, la lingua è esperienza del veramente diverso. È la lingua, la lingua della scrittura in particolare, un modo per dire il mio no al mondo, alla vita e alla realtà; la lingua è il mezzo con cui io rifiuto “il mondo così come è”.

2.1 «Perché se c’è una cosa che abbiamo imparato è che quella che pensavamo fosse la realtà è sempre più un’impresa linguistica» (David Forster Wallace).

3. Quando le persone mi domandano perché perdo tanto tempo quando scrivo una frase sulla parola giusta da scegliere, perché mi incaponisco quando lavoro con i miei studenti a spiegare che non è detto che un aggettivo valga l’altro, che il suono e il significato devono avere una propria armonia, che il come dici una “cosa” è più importante della “cosa” in sé, che insomma lo stile, la forma e la sintassi producono il contenuto e non viceversa, ecco quando mi chiedono queste cose, io spiego loro che il mio apprendistato è stato sul Libro, sulla Bibbia; l’ho letta e l’ho studiata e meditata infine. Nel Talmud si dice che l’omissione o l’aggiunta di una singola lettera alla Torah potrebbe significare la distruzione del mondo intero. Esiste una parola e perfettamente quella che è l’unica esatta per quella data frase e per dire quella data cosa, esiste un unico suono, una sola sintassi e costruzione di frase per dire esattamente e con chiarezza ciò che vogliamo. Scrivere è mettere in fila le parole, certo, ma metterle secondo un ordine di bellezza, che precede l’ordine di senso, perché lo crea. Scrivere è digitare una parola dopo l’altra, una frase, un capoverso, un capitolo dopo l’altro, ma sforzandosi di trovare l’ordine esatto e migliore, ovvero il profondo e abissale senso di ciò che vuoi dire nella forma più nitida e cristallina che la tua mente può concepire, ben sapendo che sarà sempre un fallimento.

3.1 «L’opera d’arte è il modello finito di un mondo infinito» (Jurij Lotman).

Roland Barthes

4. Ci sono alcune riflessioni di Roland Barthes, pronunciate nella sua prolusione al College de France, che secondo me dicono con esattezza alcuni concetti fondamentali su lingua e realtà. Intanto: esiste una dicotomia tra la lingua (prescrittiva, legata al potere e all’ordine) e il testo (tentativo interno di sovvertire la prescrizione, il potere e l’ordine). «Io ho preso di mira – scrive Barthes – il testo, ossia il tessuto di significanti che costituisce l’opera; poiché il testo è precisamente la parte emergente della lingua e perché è all’interno della lingua che la lingua deve esser combattuta, sviata: non già attraverso il messaggio, di cui essa è lo strumento». E continua: «Le forza della libertà che sono insite nella letteratura non dipendono dalla figura civile, dall’impegno politico dello scrittore, […], ma dall’azione di slittamento che esso esercita sulla lingua». E poi: «Quello che qui io cerco di mettere a fuoco è una responsabilità della forma». La forma insomma è il vero atto di responsabilità dello scrittore verso il mondo, verso color che leggono, non la bella storia, non l’avvincente susseguirsi di eventi, ma la forma: dare forma a un testo che produce uno slittamento della lingua come lingua di potere.

Mi pare che invece il continuo tentativo di dire che la storia, la trama, i colpi di scena, i diritti dei lettori, la lingua facile, il marketing, le fascette, i personaggi con le malattie alla moda, il libri sui padri, libri sulle madri, i libri sui figli che parlano dei padri mentre aspettano di diventare genitori, l’insistere sul contenuto, sul messaggio a discapito della forma sia il tentativo di grossolano disimpegno, lasciare che la lingua faccia il suo gioco, che è un gioco di potere; invece di forzare la lingua, invece di costringere lei che è potere a non esserlo più o smettere di esserlo in quello spazio di libertà e dono che è il testo letterario. E qui si torna a coloro che vedono nel reale e nel tentativo di descrivere il reale qualcosa che impoverisce il testo; lascio infine la parola a Barthes: «In questo senso si può dire che la letteratura, quali che siano le scuole a cui essa dichiara di appartenere, è assolutamente, categoricamente realista: essa è la realtà, o, per essere più precisi, essa è il bagliore del reale».

4.1 «Il testo di “finzione” non “conduce” ad alcuna realtà extratestuale, ogni elemento che mutua (costantemente) dalla realtà (Sherlock Holmes abitava al 221 B di Baker Street, Gilberte Swann aveva gli occhi neri) si trasforma in elemento di finzione, come Napoleone in Guerra e pace o Rouen in Madame Bovary» (Gérard Genette).

5. Certe volte la realtà ti si presenta in una nudità, che non lascia spazio alle parole. Si mette davanti a te con tutta la sua irrimediabilità e non ti lascia scampo: la realtà ha una crudeltà, una violenza, una magnificenza, uno stupore, una bruttezza e una bellezza così dense e viscose che non puoi in nessun modo darne conto. Dedicare ogni tua ossessione alla descrizione della realtà è condannarti a un fallimento; mai ciò che scriverai, dipingerai, suonerai sarà simile alla realtà. Eppure, quotidianamente cercherai di trovare il modo di dare ragione di questa perfida e sfuggente “materia”, di questa Hyle deforme che è la realtà, sapendo che ogni tuo sforzo è completamente vano.

Nonostante questo continui: non scegli il silenzio, non scegli la fuga, non scegli “l’invenzione”; scarti la fantasia, scarti l’invenzione, scarti il talento, scarti lo sguardo, scarti le creazione di mondi alternativi, scarti il romanzo ben fatto, scarti il racconto, scarti ogni regola o ogni singolo insegnamento che non sia il tentativo di esatta rappresentazione della realtà. Scarti l’idea di farti scrittore e scegli di farti cronista anonimo, bislacco e sconfitto, dedicando l’esistenza a una “cosa” che infine ti consumerà.

5.1 «Quanto più perfetto è l’artista, tanto più rigorosamente separati resteranno in lui l’uomo che soffre e la mente che crea» (T.S. Eliot).

6. Se debbo trovare un modo di definire il mio rapporto con la realtà e la sua descrizione, credo che l’unica definizione, utile per me, sia l’aggettivo paranoica. Cioè io non cerco nella realtà qualcosa che è dato per quello che è, ma qualcosa che io credo che sia dato ma che solo io vedo: la fede è una forma di paranoia, la letteratura è una forma, l’altissima se volete, di paranoia. Il darsi della realtà come io solo la vedo è in una parola lingua: tramite la lingua io produco uno scarto con la realtà. Questo scarto è l’impostura.

7. Aristotele nella Poetica scrive: «Le trame ben composte non devono cominciare né finire come capita». Questo indica uno scarto di non poco conto rispetto alla vita reale, dimostrando ancora una volta che esiste la vita reale, ed esiste la realtà letteraria della vita. Nella vita reale le cose accadono come capita, nella realtà letteraria della vita ogni cosa è legata a quella precedente e questa cosa si chiama sintassi, grammatica e infine parola.

Robert Louis Stevenson

7.1 «Competere con la vita? […] Competere con il gusto del vino, la dolcezza dell’aurora, il calore della fiamma, l’amarezza della morte e del distacco è un progetto folle come quello di dare la scalata al paradiso. La vita è mostruosa: la vita è infinita, illogica, improvvisa, acuta e penetrante; l’opera d’arte, al confronto, non può non apparire nitida, finita, autosufficiente, razionale, scorrevole, esangue. […]. Un postulato geometrico non compete con la vita; e il postulato geometrico è un ottimo paragone per l’opera d’arte. Come opera d’arte, il romanzo non esiste in quanto somiglia alla vita reale, ma in quanto se ne distacca in modo totale e incommensurabile, con una differenza che è voluta e significativa, e costituisce a un tempo e il senso più vero dell’opera» (Robert Luis Stevenson).

8. Rileggendo il Dialogo sui massimi sistemi di Galilei. Cosa voleva dire per Galileo provare a descrivere con precisione non tanto una realtà “altra” (cosa tipica dell’arte e della scrittura prima di lui), ma proprio la realtà sensibile che ogni giorno gli accade davanti gli occhi. Ho pensato alla fatica che deve aver fatto per rendere comprensibile la descrizione delle lune di Giove o l’esperimento dei gravi. La lingua che aveva a disposizione non era fatta per quello: era lingua adatta alla visione e non una lingua per vedere; era una lingua d’invenzione e non ha lingua che descrivesse ciò che è. Ho pensato che questa tensione tra la realtà “che” ci accade, e il tentativo di rappresentarla “come” essa ci accade fosse o potesse essere contenuto nella parola realismo.

9. Niente è più ir-reale del dialogo. L’apertura delle virgolette e le successive parole sono sempre un falso. La scrittura nasce o come conteggio/censimento (gli elenchi dei magazzini dei Sumeri ai libri di conto dei mercanti medioevali) o come descrizione/prescrizione (i disegni preistorici fino ai libri di cucina). Il dialogo. quindi, rappresenta il “non verosimile” nel racconto: perché invece di parlare con qualcuno immaginiamo di parlare con qualcuno? Il delicato equilibrio di un buon dialogo sta tutto nel comprendere che il dialogo è il momento più fittizio in un testo. E quindi più che in altri luoghi della narrazione entrano in gioco il punto di vista, lo stile, l’oggetto del narrare, i personaggi e il loro muoversi nella storia.

Una opinione su "A proposito del “così com’è”. Appunti sul realismo come genere letterario"

  1. Forse il punto fondamentale di tutta la faccenda è proprio la distinzione tra lingua e testo. Ho l’impressione che da una parte stia la comunicazione, il dirsi delle cose che valgono qui e adesso, dall’altra la letteratura, l’idea di leggere storie che possano riverberare anche dopo che la lettura è terminata. Le due cose vengono facilmente confuse perché si fanno con gli stessi strumenti – le parole – e finiscono spesso dentro gli stessi contenitori – i libri, ma non dovrebbero nemmeno essere accostate. Poi è vero che per la prima si usa in genere una forma semplice, e per l’altra una complessa, ma può valere anche il contrario. Alla fine ci sarà qualcos’altro (il sottotesto?, la cooperazione del lettore?, il paratesto?, la bellezza?) che mi farà capire se un testo è un testo letterario, o un messaggio che serve solo a passarmi un’informazione o a raccontarmi un aneddoto legato alla cronaca.

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