di Valentina Durante.
“Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò”.
Genesi 3,6
Il peccato originale comincia con una donna che guarda. Eva, solleticata dal serpente (“si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio”), vede che l’albero è buono e gradito agli occhi. Mangia e convince il marito a mangiarne. Adamo, lui, non guarda: semplicemente accetta il frutto che la donna gli porge. L’uomo non è reo di un peccato di visione, semmai di aver assecondato il peccato di visione della donna. La consapevolezza della reciproca nudità (“si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi”) avviene in un secondo momento e come conseguenza dell’atto. E cosa vede l’uomo, una volta apertisi gli occhi? Se stesso nudo. Anche la donna si vede nuda e alla stessa maniera vede il compagno: la scoperta della nudità di entrambi è suggello del peccato commesso.
In Questione di sguardi, John Berger dedica un capitolo al nudo femminile come uno dei soggetti centrali della pittura a olio europea e, dal Novecento in poi, della fotografia. Berger non rientra fra i grandi nomi della critica d’arte ma le sue analisi – proposte con argomentazioni piane e una lingua per nulla ampollosa – sono spesso ficcanti. Nella figurazione occidentale, dice Berger, la donna nuda è una donna che viene guardata dall’uomo. L’uomo può essere parte della scena rappresentata ma il più delle volte coincide con lo spettatore, senza intermediari finzionali, ed è la donna stessa, dall’interno del quadro, a cercarlo con gli occhi.

Anche quando la donna sembra non invitare il risultato è il medesimo, perseguito tramite vie più tortuose.

Scrive Berger: “Lo specchio fu usato spesso come simbolo della vanità femminile. Il moraleggiare, però, era quasi sempre segno d’ipocrisia.
Dipingevi una donna nuda, perché ti piaceva guardarla, le mettevi in mano uno specchio e chiamavi il dipinto Vanità, condannando così sul piano morale la donna di cui avevi raffigurato la nudità per il tuo piacere.
La vera funzione dello specchio era un’altra. Esso serviva a far sì che la donna fosse connivente nel trattare se stessa, innanzi tutto, da veduta”.
Un nudo pretende di essere osservato e si presume che l’osservatore sia maschio. Il corpo nudo non è un corpo spogliato: se spogliarsi significa rinunciare a ogni sorta di copertura, di maschera e di infingimento – io sono realmente così –, la nudità è l’assunzione di una maschera diversa: quella del corpo nel suo valore di oggetto osservato.
Uno dei passi più famosi di Madame Bovary, e certo il più erotico, è la scena della carrozza.
“Une fois, au milieu du jour, en pleine campagne, au moment où le soleil dardait le plus fort contre les vieilles lanternes argentées, une main nue passa sous les petits rideaux de toile jaune et jeta des déchirures de papier, qui se dispersèrent au vent et s’abattirent plus loin, comme des papillons blancs, sur un champ de trèfles rouges tout en fleur”.
Siamo nel mezzo del giorno, in piena campagna, con il sole che dardeggia più forte contro i vecchi fanali argentati, quando una “main nue” esce di sotto le tendine di tela gialla per gettare un pugnello di pezzetti di carta: i frammenti della lettera con la quale Emma intendeva rompere la sua relazione con Leon e che ora non serve più. In Lo sguardo realista, Peter Brooks ci fa notare che Flaubert non ha scritto semplicemente “una mano”, e neppure “una mano senza guanto” (une main dégantée), come sarebbe forse stato più logico. No, Flaubert ha voluto parlare di nudo, di mano nuda, dunque di qualcosa che ha un preciso significato orientato alla visione: il corpo femminile come oggetto di piacere sessuale.
Nell’Ottocento, uomini di stato e magnati industriali conducevano le loro trattative in grandi sale, sotto dipinti come questo:

“Quando uno di loro aveva la sensazione di essere stato messo con le spalle al muro, poteva sempre alzare gli occhi in cerca di consolazione. Ciò che vedeva gli ricordava che era un uomo” (così Berger).
Altra notazione interessante di Brooks: Emma Bovary non ha veramente un corpo. Emma ha frammenti di corpo – mani nude, unghie candide, guance rosate, la punta dell’orecchio che spunta dai capelli, spalle nude imperlate di sudore – e ha i vestiti, gli accessori, tutti gli orpelli che indossa e per i quali s’indebita, in una corsa spericolata verso la dannazione da un lato e la feticizzazione dell’oggetto da un altro. Ma in sé, come donna completa, formata e autonoma, come io guardante ancor prima che desiderante, Emma non esiste. Neppure come nome, dato che non riesce a dare il titolo al romanzo. Il giorno del suo matrimonio, dopo la descrizione degli ospiti e soprattutto di quel monumento di pasticceria barocca che è la torta nuziale, di Emma non si dice che questo: “Troppo lungo, l’abito di Emma trascinava l’orlo a terra; ogni tanto lei si fermava per rialzarlo e allora, delicatamente, con le dita guantate, ne toglieva qualche ruvido stelo o qualche spino di cardo”.
Secondo Brooks, la frammentazione di Emma è da imputarsi alla mediocrità degli uomini che la guardano e la ammirano. Sono loro – Léon, capace di vederla solo attraverso stereotipi; Rodolphe, umanamente sterile; Charles Bovary, quel marito il cui commento finale è l’apoteosi della banalità: C’è la faute de la fatalité – sono questi uomini da poco a renderci impossibile una restituzione piena della donna. Provo però ad azzardare un’altra ipotesi, che chiama in causa la famosa dichiarazione flaubertiana “Madame Bovary c’est moi”. Se i due termini di un’equivalenza sono per definizione intercambiabili, allora possiamo attribuire questa stessa frase a Emma: “Gustave Flaubert c’est moi” (il rovesciamento è già stato proposto da Giulio Mozzi qui). Io, Emma, sono l’autrice dello scritto, la sovrana della storia, e pure in questa autorialità e sovranità non mi è dato di guardarmi per intero. Sono una donna, e le donne non (si) guardano.
Una forma di totalità e interezza non è consentita neppure a Clarissa, altra donna costretta al cognome maritale già nel titolo del romanzo. Leggiamo in Mrs Dalloway di Virginia Woolf:
“Ma spesso questo corpo che portava (si fermò a osservare un dipinto olandese), questo suo corpo, con tutte le sue facoltà, le sembrava non valesse nulla – proprio nulla. Ebbe la curiosa impressione di essere invisibile; non vista; non conosciuta; e non c’erano più né matrimonio, né figli, ma soltanto quella stupefacente, e piuttosto solenne processione insieme con tutti gli altri, su per Bond Street; e questo era essere la signora Dalloway, non più Clarissa, ma la moglie di Richard Dalloway”.
Come Emma, Clarissa può guardare, perciò desiderare, gli oggetti – quel dipinto olandese – ma lei, come corpo autodeterminato, slegato dalla dittatorialità della visione maschile, non esiste. È un corpo che non è, che non si possiede, al limite che si porta.
Cambiamo tempo e arte. L’amplesso fotografico fra Thomas e Veruschka, in Blow-up di Antonioni, sembra il manifesto di una gerarchia della visione connotata sessualmente.
C’è qui una esternalizzazione e assieme un potenziamento dello sguardo attraverso la macchina fotografica, così da far emergere con vigore ciò di cui si sta parlando: l’uomo che guarda la donna e così facendo esercita su di lei una forma di possesso grandioso. La donna è oggetto guardato, desiderato, posseduto e in quanto tale passivo. La magrissima e sensuale Veruschka è passiva: pur ammiccando e dimenandosi e all’apparenza godendo, ella è già la grafia di luce che andrà a imprimersi sulla lastra, a uso e consumo di altri spettatori – maschi.
Ancora più eloquente è la novella L’avventura di un fotografo di Italo Calvino (in Gli amori difficili): qui il cervellotico e ossessivo Antonino si scopre innamorato di Bice solo dopo averla fotografata nuda – dunque trasmutata in oggetto. Ma la sua smania di possesso si spinge ancora più in là: Antonino vuole prendere (questo è il verbo che Calvino adopera per indicare lo scatto) Bice nella sua completa interezza, inclusa la presenza della donna a lui invisibile:
“Ma non diceva quello che soprattutto gli stava a cuore: cogliere Bice per la strada quando non sapeva d’essere vista da lui, tenerla sotto il tiro d’obiettivi nascosti, fotografarla non solo senza farsi vedere ma senza vederla, sorprenderla com’era in assenza del suo sguardo, di qualsiasi sguardo. Non che volesse scoprire qualcosa in particolare; non era geloso nel senso corrente della parola. Era una Bice invisibile che voleva possedere, una Bice assolutamente sola, una Bice la cui presenza presupponesse l’assenza di lui e di tutti gli altri”.
Per scrivere bisogna guardare. E scrivendo si fissa (l’ambiguità di significato è voluta) una certa visione o idea di mondo. Cosa significa dunque “scrittura femminile”? Che si ritiene capace la scrittrice, in quanto donna, di scrivere relativamente al mondo solo di una parte, e non di un tutto. La donna non può scrivere di potere, di prevaricazione, di solitudine, di umiliazione, di ambizione, di piacere sessuale e del generare, accudire e crescere i figli, non può scrivere di morte e di Dio; può scrivere al massimo di potere femminile, di prevaricazione femminile, di solitudine femminile, di umiliazione (meglio ancora di umiltà) femminile, di ambizioni (plurale) femminili, di sessualità femminile e certo (anzi, sarà ben che ne scriva) di maternità; può scrivere più che di morte del compianto per chi è morto, non di consunzione del corpo ma semmai di disfacimento della bellezza e in quanto a Dio, beh, sulle multiformi forme della religiosità femminile si possono dire molte e interessanti cose. Non un’idea complessa e coesa di mondo; semmai una certa idea – ricca fin che si vuole – di mondo femminile.
La prima donna guarda l’albero proibito, ne vede la bontà e ne prova desiderio; commette peccato e induce poi il primo uomo a peccare. Guardare vuol dire porsi nella condizione di soggetto desiderante e tutto ciò dev’esser certo fonte di problemi. Cosa può e non può guardare – dunque desiderare – la donna? Può guardare se stessa, ma solo per validare l’idea che di lei ha l’uomo, quella di soggetto, anzi oggetto, contenuto o contenibile in un frammento: il femminile. Può guardare le cose, deve: sembra che il mondo – creato o increato che sia – stia lì proprio per questo, per i suoi donneschi istinti bulimici. Emma è pezzi di corpo ma specialmente è “sottogonne di basino, i fisciù, i collaretti, i mutandoni arricciati”, tutto l’armamentario che ne compone l’identità e che dopo morta verrà inventariato dall’ufficiale giudiziario e dai suoi uomini: “Esaminarono i suoi abiti, la biancheria, lo spogliatoio; e la sua vita, in ogni più riposta piega, fu esibita davanti agli occhi di quei tre uomini come un cadavere all’autopsia”. Però la donna non può guardare l’uomo. È l’uomo a non poter essere guardato, pena il rischio di essere desiderato o non desiderato, dunque derubricato a oggetto. Troppo pericoloso, un depotenziarsi del maschile a ruolo passivo, perché il maschio deve guardare e desiderare, chi non guarda (più) è l’uomo pazzo, impazzito, l’aspirante suicida, e dunque Guarda, ripete Rezia al marito Septimus ormai psicotico, fuori di senno, alienato, Guarda, ripete, incalza, sperando che rinsavisca e torni alla normalità.
Forse lo stigma del femminile – dell’arte femminile in senso lato – è, più che arroganza o supponenza maschile, una spia di evitamento e terrore. Peter Walsh, davanti a una Clarissa invecchiata ma pur desiderabile, “trema in modo evidente”. La guarda, la tocca, la bacia ma non è questo, il suo porsi attivamente a spaventarlo. È quando si accorge che sta succedendo il contrario: “Mi guarda, pensò, e un imbarazzo improvviso lo colse, benché le avesse baciato le mani”.
E come guardare alla letteratura attraverso l’arte (e viceversa) parleremo nel nostro “Scritto ad arte”, il primo corso-laboratorio che fa uso delle arti figurative come strumento per immaginare, inventare e comporre un testo letterario. Comincia a febbraio 2020 e il bando sta qui.
L’immagine di copertina è Untitled (What you see is what you get) (1996) di Barbara Kruger.