di Simone Salomoni
docente della Bottega di narrazione
Comincio a mettere a sistema alcune letture, dicevo, e continuo a leggere e studiare. Apprendo che il termine autofiction è stato coniato nel 1977 dal critico e scrittore francese Serge Doubrovsky (nella foto in cima all’articolo), nella prefazione del proprio romanzo Fils, e che in Francia, due anni prima di Fils, era uscito un saggio del critico Philippe Lejeune, Le pacte autobiographique.
Fra le sostanziali differenze fra romanzo e autobiografia abbiamo, dice Lejeune, la natura del “patto col lettore”: se leggiamo un romanzo non ci aspettiamo che quello che stiamo leggendo sia vero, sia effettivamente accaduto, ma – al limite – che sia possibile che accada; se leggiamo un’autobiografia ci aspettiamo che i fatti siano andati proprio come vengono descritti, o comunque nella maniera più simile a come vengono descritti. Se ci avviciniamo a un romanzo sappiamo che il protagonista di quel romanzo non porterà il nome e cognome dell’autore, se ci avviciniamo a un’autobiografia è certo che il protagonista avrà il nome e il cognome dell’autore. Un romanzo, in quanto tale, è subordinato a un patto di tipo romanzesco, un’autobiografia a un patto di tipo autobiografico. Un racconto può basarsi su un patto autobiografico, un romanzo – per sua natura – no.
Lejeune distingue tra patto autobiografico (il protagonista porta il nome e il cognome dell’autore) e patto romanzesco (la natura fittizia del libro è indicata sin dalla copertina); elabora l’idea secondo la quale, teoricamente, è possibile stipulare un patto romanzesco con un protagonista dall’identità uguale all’autore, ma nella pratica non vi trova esempi che presentano tale combinazione. Nell’opinione di Doubrovsky questo spazio vuoto viene riempito da un romanzo come Fils.
Capisco che per parlare di autofinzione è necessario avere un autore che si costruisce come personaggio, che presta il proprio nome a un personaggio, perché nel nome del personaggio – almeno Secondo Doubrovsky – sta la differenza tra l’autofinzione e il romanzo pseudoautobiografico, nel quale lo scrittore parla della propria vita, versa la sua identità in uno dei protagonisti, ma non utilizza i propri dati anagrafici. Ma non solo: l’autore oltre al personaggio, che non deve necessariamente essere il protagonista, deve prestare il proprio nome anche al narratore.
Quindi: una caratteristica dell’autofinzione parrebbe essere la corrispondenza anagrafica fra autore, narratore e protagonista del romanzo.
Ovviamente questo concetto va preso con una certa elasticità. A volte parrebbe opportuno inserire nelle categoria autofinzione anche romanzi i cui protagonisti non portano nomi corrispondenti a quello dell’autore, ma ne condividano la biografia. Secondo Doubrovsky, però, in questo tipo di casi è più corretto parlare di pseudoautofinzione.

autobiografia, autofiction e dintorni
un corso con Simone Salomoni
C’è un’altra condizione che parrebbe indispensabile per parlare di autofinzione: il particolare rapporto tra gli avvenimenti reali e l’invenzione finzionale: l’autofiction si nutre di elementi autobiografici, ma in qualche modo questi elementi possono essere visti come uno sfondo; gli avvenimenti descritti dall’autore non hanno necessariamente avuto luogo, ma sono stati raccontati, incorniciati in modo fittizio a partire da un elemento autentico. In una autofinzione non si riporta quindi l’intera storia della propria vita, bensì si narra per frammenti, il processo è più simile a quello della letteratura di memoir che della letteratura autobiografica.
Un’altra lettura fondamentale è stata Soglie di Gérard Genette. Genette nel suo saggio ragiona sull’importanza di tutte quelle parti che apparentemente non sono parti vere e proprie di romanzo, ma ne rappresentano il “paratesto”: copertina, attribuzioni sulla copertina, prefazioni, avvertenze, epigrafi.
A Genette, inoltre, va riconosciuta l’intuizione di definire, secondo me a ragione, l’autofiction come un genere integralmente paradossale (“c’est moi et c’est pas moi”, “sono io e non sono io”); però, in polemica con le posizioni di Doubrovsky, ritiene l’autofiction una pratica molto antica, che affonda le proprie radici addirittura nella Commedia di Dante. Genette, in pratica, afferma che l’autofiction si verifica dove la fiction (la catabasi di Dante) è riconoscibile e non relegata al paratesto; altrimenti si hanno delle autobiografie “vergognose” (“autobiographie honteuse”), ovvero autobiografie che si rifiutano di definirsi tali per pudore psicologico dei propri autori.
Associo il concetto di autobiografia vergognosa all’autofiction di Walter Siti (nel frattempo avevo terminato la trilogia Il Dio impossibile che comprende Scuola di nudo, Un dolore normale e Troppi paradisi: per inciso: il testo che ho trovato più interessante, per la sua natura metaletteraria, è Un dolore normale, forse il meno noto).
Personalmente, per quello che conta, non sono d’accordo con Genette (e con Vincent Colonna, suo allievo, forse il maggiore studioso di autofiction al mondo) quando postula che autofiction sia un nome nuovo dato a qualcosa che si faceva già da tempo e cita la Commedia come esempio. Condivido invece l’idea che anche se il testo autobiografico – almeno in teoria – dovrebbe essere privo di elementi fittizi, ogni autobiografia comporta, quasi inevitabilmente, una parte di finzione o autofinzione, magari inconscia o dissimulata.
Leggere Genette mi porta inevitabilmente a ragionare sugli elementi di paratesto – ricordate l’epigrafe presente nel mio romanzo?: una sorta di dedica a me stesso – che incontro nelle opere autofinzionali di Walter Siti e – soprattutto – di Philip Roth.
(Continua).