di Simone Salomoni
docente della Bottega di narrazione
[La prima puntata] [La seconda puntata]
Di Philip Roth avevo letto già alcuni romanzi, i più noti, Pastorale Americana, Lamento di Portnoy, La macchia umana”. Avevo letto Il teatro di Sabbath, che è forse il romanzo più romanzo di Roth, scritto al termine del periodo di massima sperimentazione di Roth, e che è, secondo me, un romanzo – romanzo – splendido.
Approfondendolo mi sono fatto l’opinione che Roth sia forse l’autore che più di ogni altro ha sperimentato le diverse possibilità delle scritture del sé, potrei dire che ne ha quasi fatto una bandiera; ha esplorato le possibilità della pseudoautobiografia, attraverso numerosi alter ego. Fra questo, il più famoso è senza dubbio lo scrittore Nathan Zuckerman protagonista (ma non sempre narratore) di diversi romanzi di Roth.
Ma Roth non si limita a questo.
Fra il 1988 e il 1993 alterna due libri di memorie (I fatti. Autobiografia di un romanziere, 1988 e Patrimonio. Una storia vera, 1991) – Wikipedia li cataloga così – a due libri evidentemente autofinzionali (Inganno, 1990 e Operazione Shylock. Una confessione, 1993).
Faccio una nota a margine: nel 1986 esce La controvita (forse il libro più sperimentale di Roth e forse – ma lo dico fra mille virgolette perché non saprei spiegarvi il perché di questa mia impressione – il più importante); nel 1995 esce Il teatro di Sabbath, un romanzo – romanzo – come ho detto, coi fiocchi. Un po’ ad aprire e chiudere quello che è stato il decennio d’oro di Philip Roth, almeno nella mia opinione e per quello che ho letto.

autobiografia, autofiction e dintorni
un corso con Simone Salomoni
Comunque. Torniamo all’autofiction. Nel 1988 Roth fa uscire questo libro che si intitola I fatti. Autobiografia di un romanziere. Il libro si apre con una lettere di Roth a Zuckerman nella quale, in sostanza, Roth afferma di sentire un desiderio di verità e di volere quindi scrivere un libro di fatti – appunto – e si chiude con la risposta di Zuckerman a Roth, risposta nella quale l’alter ego nega allo scrittore la possibilità di pubblicare il libro. Credo che davanti a uno scrittore che afferma di volere essere sincero, ma poi scrive al proprio alter ego letterario, e ottiene risposta, il lettore debba farsi qualche domanda. Il romanziere, per sua natura, è un bugiardo: questo sembra volerci diri Roth.
Due anni dopo Roth farà uscire quello che è il suo primo romanzo autofinzionale: Inganno. Si tratta di un libro di dialoghi fra uno scrittore ebreo chiamato Philip e una donna inglese di nome Maria (apparsa ne La controvita come amante di Zuckerman). Dopo un centinaio di pagine, leggendo il penultimo dialogo, scopriamo che ciò che abbiamo letto altro non è che il materiale di studio di Roth personaggio e apprendiamo che l’amante è un’invenzione letteraria costruita così bene da ingannare persino la moglie di Roth, l’interlocutrice in questo penultimo dialogo. Lo scrittore sembra volere sottolineare la superiorità della creatura inventata sulla creatura reale. Ma non è finita. Con l’ultimo dialogo scopriamo di essere stati spettatori dell’ennesimo inganno di Roth e che l’amante (la Maria de La controvita) esiste realmente.
Sia ne I fatti (che, ricordiamo, doveva essere un’autobiografia), sia in Desiderio il lettore, in diversa maniera, si trova di fronte al rovesciamento di quella che credeva la realtà, vede tradito il patto che lo legava allo scrittore.
In Operazione Shylock Roth si spinge oltre. Falsa completamente il principio di realtà su cui si regge la storia. Racconta un’avventura occorsa a un personaggio di nome Philip Roth, sfruttando i propri dati autobiografici. Dopodiché sottopone il suo vissuto a un’alterazione romanzesca tanto evidente da spiccare per improbabilità. Qualsiasi verifica dei dati – consigliata quando si legge quella che viene presentata come un’inchiesta o un resoconto – è incerta, ben presto il lettore si trova dentro una spy story nella quale può dedurre la massiccia dose di fiction che sovverte la prefazione.
Roth, nelle interviste successive all’uscita del libro, ha sempre confermato, con tono canzonatorio, che tutto quello che ha raccontato nel libro è vero ed è successo, ma in realtà questo romanzo è la più spudorata contraffazione di Roth; grazie all’invenzione romanzesca l’autore esprimi giudizi politici e storici che altrimenti non avrebbe espresso e lo fa per bocca di Moishe Pipik, suo doppio; suo doppio perché nel corso del romanzo si spaccerà per lo stesso Roth. Secondo Moishe Pipik per risolvere il conflitto israeliano palestinese Israele dovrebbe rinunciare al suo stato e i cittadini prepararsi a una nuova diaspora.
I due Roth si incontrano dando vita a dialoghi assurdi e divertentissimi; entrambi mettono in dubbio l’effettiva esistenza dell’altro, ma non solo: dopo essere rientrato negli Stati Uniti Roth apprende dalla moglie di Pipik che Pipik è morto di cancro e le propone di diventare – da romanziere di fama internazionale qual è – lo scrittore fantasma del suo doppio defunto. Sembra che Roth voglia esplorare la zona di confine fra autobiografia e romanzo, racconta come reale una storia possibile e riflette sulla componente romanzesca di ogni scrittura autobiografica.
Dopo quattrocento pagine il romanzo si chiude con una Nota per il lettore. La nota non è parte del paratesto: non è editoriale e non è giustificativa. Va intesa come conseguenza delle pressioni esercitate dai servizi segreti israeliani sull’autore allo scopo di evitare che la storia appena letta possa essere presa per vera; in altre parole: è parte della fiction.